Il carnevale mi mette gioia e tristezza insieme.
Mi mette gioia perché nel carnevale si esprime la voglia di libertà, di follia, di trasgressione che è nell’anima. Il carnevale, in fondo, è l’ultima sopravvivenza sociale dei grandi rituali dell’antichità, i rituali eleusini, orfici e dionisiaci, che ricordavano da vicino i rituali tantrici in cui l’essere umano faceva conoscenza della parte più selvaggia, potente, libera di sé, e sperimentava -per dirla con una espressione poetica- il “fare anima”.
Il carnevale, però, mi mette anche tristezza perché mi mostra come il senso e la potenza del rituale tantrico sia stata addomesticata, tradita, volgarizzata e, con ciò, neutralizzata.
Febbraio era il mese del dio Dioniso (la sua festa, tra parentesi, nel calendario pagano coincide con il giorno del mio compleanno). Dioniso è Lysios, cioè “colui che scioglie”, “il liberatore”. Shiva e Dioniso sono lo stesso dio, i rituali dionisiaci, orfici ed eleusini dell’antica Grecia e i rituali tantrici shivaiti hanno veramente molto in comune; sono stati per me un campo di grande interesse e di attento studio per molti anni, e lo sono ancora.

Ecco che cosa scrivo in proposito nel mio libro “Digiuno Immaginale”:
“I riti dei misteri eleusini si svolgevano a febbraio nel mese di antesterione (l’ottavo mese del calendario attico che corrisponde alla seconda metà di febbraio fino alla prima metà di marzo).
A questi riti liberatori, seguivano poi i cosiddetti “grandi misteri” che si tenevano in autunno nel mese di boedromione (settembre-ottobre) in cui avvenivano la consacrazione e l’iniziazione. Possiamo solo immaginare la forza della celebrazione dei misteri a Eleusi. Indotta dal suono degli aulòi e dei tamburi, la trance estatica, indispensabile per entrare in stati di coscienza ampliati, necessari alla realizzazione della myesis, l’iniziazione, e dell’epoptèia, l’iniziazione suprema, così come le danze estatiche nelle quali ogni partecipante indossava bende color zafferano intorno al piede sinistro e alla mano destra per ritrovare il proprio corpo dopo averlo abbandonato durante il “descensus ad inferos”, la catabasi. Siamo agli albori del teatro greco, l’arte che gli antichi usavano per nutrire la psyché, l’anima.
Il drama della poiesi, la poesia dell’anima, faceva sì che gli iniziandi, che suonavano e danzavano, sperimentassero un potente coinvolgimento emotivo, un’identificazione totale con le emozioni della dea Demetra. La catarsi emotiva che destruttura l’Io, dissolvendo i legami che uniscono i pensieri e sciogliendo la mente razionale, porta la coscienza all’espansione e all’unione con il tutto, è parte di ogni processo di rivelazione e illuminazione.”
Era parte del rituale anche un processo di disintossicazione del corpo e della mente di nove giorni. È proprio questo processo di nove giorni che io ripropongo nel mio libo “Digiuno Immaginale” e nei miei ritiri dove cucino personalmente per i partecipanti cibi che hanno lo scopo di disintossicare corpo e mente. E poi facciamo un lavoro individuale di lettura del mito che ciascuno mette sulla scienza della vita vivendo.
La vita è mitopoiesi, cioè una creazione dell’anima (“poiesi”) che ha la struttura poetica del mito.
L’anima – “psyche” per gli antichi- non è cambiata dai tempi degli antichi misteri ad oggi e il mito e il rituale ancora ne costituiscono la chiave d’accesso.
Il carnevale dovrebbe essere proprio il momento in cui, indossando una maschera, l’uomo rivela a se stesso il mitema principale della propria esistenza.
Ciascuno di noi, vivendo, mette sulla scena della vita un mito, e ciascuno di noi si risolve, si riscatta, si libera nel momento in cui “vede” il mito che sta mettendo in scena vivendo.
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Il carnevale, come il teatro greco, dovrebbe rivelare all’uomo i suoi sentimenti più oscuri e profondi, che, portati alla luce in un contesto circoscritto, come quello del rituale, dovrebbero rivelarsi quali potenti forze inconsce capaci di trasformare positivamente la vita.
Questo carnevale -anche se non è quello che va per la maggiore- può essere vissuto nell’intimità di ciascuno di noi, oppure nei piccoli shanga, i piccoli gruppi spirituali che si formano intorno a un maestro.
La chiave è la celebrazione del dionisiaco, quell’aspetto folle e oscuro della nostra anima, senza il quale non può esistere nessuna vera visione, né vera realizzazione, perché chi non è mai stato folle non può in alcun modo essere saggio.

Molte caratteristiche di Dioniso si ritrovano anche nella figura del Cristo. Dioniso è, infatti, il “di genes”, cioè il nato due volte, morto e poi risorto, ed il vino -tipico elemento dionisiaco- è anche un simbolo cristico di grande importanza.
Dioniso è il dio che invita al rituale della morte e rinascita, che appunto è il carnevale, il momento in cui lasciamo il nostro io sociale, l’idea di essere qualcuno, e possiamo essere tutti gli uomini, qualsiasi personaggio, grazie all’estasi e al travestimento che aprono la porta alla molteplicità dell’essere, vincendo le barriere sociali.
Voglio concludere con le parole del filosofo Nietzsche, che ritengo essere il miglio inno al carnevale che si possa immaginare:
“Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare”
(Cfr. F. Nietzsche “Così parlo Zaratrustra” Adelphi)
Articolo di Selene Calloni Williams
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