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“Kintsugi”, il libro di Selene C. Williams che insegna a riparare le ferite dell’anima

Di Elena Bernabè - 14 Marzo 2023

Ci sono libri che si fanno leggere in pochi giorni, composti da pagine intrise di un amore per la verità così autentico da portarti a cambiare il modo di pensare, parole così potenti e penetranti da scuoterti profondamente. L’ultimo lavoro di Selene Calloni Williams intitolato “Kintsugi” è uno di questi libri. Selene è scrittrice, viaggiatrice, documentarista, autrice di numerosi libri e documentari che trattano di psicologia ed ecologia profonda, di sciamanismo, yoga, filosofia e antropologia, fondatrice dell’Imaginal Accademy.

Il suo nuovo libro si apre con queste parole che racchiudono il fulcro di tutte le sue pagine:

“Nella filosofia spirituale giapponese il kintsugi è l’arte di riparare gli oggetti rotti con l’oro. In senso molto lato essa diviene l’abilità di fare delle nostre ferite fisiche ed emotive un prezioso patrimonio di forza e possibilità.”

Dal libro “Kintsugi” di Selene Calloni Williams

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Il libro di Selene è un viaggio dentro a noi stessi, è un invito a considerare le difficoltà della vita come a dei maestri giunti per mostrarci la via da percorrere, è un libro che ci guida, ci sostiene, ci prepara a divenire samurai, guerrieri, eroi del nostro cammino esistenziale.

Abbiamo voluto intervistare l’autrice riguardo a questo suo nuovo lavoro. Eccovi le risposte alle nostre domande.

1- Ha scritto tantissimi libri in pochissimo tempo: lo scrivere è un suo modo di elaborare e di mettere ordine nell’interiorità oppure vi è un altro scopo?

Scrivere per me è preghiera ed è meditazione. Quando scrivo dialogo con l’invisibile, con tutto ciò che ancora mi resta da conoscere e apprendo. Un libro deve essere innanzitutto utile al mio processo evolutivo e, se lo è, sicuramente lo sarà anche per il mio lettore. Ho la sensazione che i miei lettori ed io ci riflettiamo gli uni nell’altra come immagini di uno specchio. Negli anni sono cresciuta molto insieme ai miei lettori. Posso dire che li amo. Questo sentimento mi aiuta a dare sempre di più attraverso i miei libri senza ripetermi, cosa non sempre facile per uno scrittore.

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2- In questo libro si parla di come trasformare le ferite dell’anima in occasioni di crescita. E’ davvero possibile riuscirvi in modo autonomo? Ognuno di noi ha le risorse necessarie per poter compiere questa trasformazione interiore?

Tutti possono riparare le ferite dell’anima con l’oro della consapevolezza, bisogna però staccarsi dai valori di una cultura patricentrica che ci vuole vittime. Questa cultura esalta i valori maschili, diurni, solari, razionali e negativizza -per non dire satanizza- i valori femminili, notturni, lunari, irrazionali, emozionali. La riparazione con l’oro avviene cambiando il significato delle nostre esperienze. Se, per esempio, ho attraversato o sto attraversando una emozione di tristezza, devo avere la forza di non giudicare la tristezza come male. La dolce tristezza può essere una chiamata al viaggio ctonio, sotterraneo, il viaggio nell’invisibilità che ci aiuta a fare anima e ad evolvere, sciogliendo paure e limitazioni. Riparare con l’oro della consapevolezza le ferite dell’anima ci permette di riscrivere la storia della nostra vita e di fondarci su di un passato che ci sostiene e ci aiuta a manifestare un futuro vincente e fiorente.

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3- Tra le pagine di questo suo nuovo lavoro vi è, forse per la prima volta, un richiamo alla sua vita personale. Ha raccontato le sue ferite e come è riuscita a trasvalutarle: come mai ha ritenuto necessario compiere questo passo non presente in altri libri?

Il mio impegno è quello di rivolgermi ai miei lettori in veste sempre nuova, evitando le ripetizioni. La sola parte della mia vita di cui avevo parlato nei miei libri sino ad oggi ha riguardato i miei anni trascorsi in Sri Lanka, quando ero nell’eremitaggio buddhista e apprendevo la meditazione e lo yoga. Questa volta ho voluto parlare di altri momenti, più delicati, oscuri, sotterranei del mio passato, momenti in cui sono andata in mille pezzi. Sono esempi che mi sono stati molto utili nel libro per spiegare al lettore come ci si possa frantumare e poi riparare con l’oro.

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4- Esistono secondo lei degli atti simbolici concreti che una persona può compiere in grado di pacificare il passato e, quindi, di prendersi cura delle proprie ferite? Se sì può farci un esempio?

Viviamo in un mondo simbolico. La parola “simbolo” -dal verbo greco “sunballo”, “mettere insieme” – ci fa pensare al simbolo come qualcosa che ci aiuta a rimettere insieme due parti di un insieme che sono state separate. Gli eventi che ci accadono ci aiutano a riunirci a pezzi di noi che abbiamo perso, frammenti di anima che abbiamo dimenticato. Nel libro, per esempio, racconto di una grave malattia che mi è accaduta e di come sia riuscita a superare positivamente l’evento trasvalutandone il significato attraverso l’arte del kintsugi. C’è un’intelligenza straordinaria in ogni evento, anche, o dovrei dire soprattutto, in un cancro. Quando ho scoperto di avere una grave malattia il vaso della mia anima è andato in mille pezzi, eppure c’era qualcuno dentro di me che non ha mai avuto alcun dubbio sul fatto che ciò che mi stava capitando aveva un fine e che ce l’avrei fatta. C’è qualcuno in noi che sa sempre tutto: possiamo chiamarlo spirito guida, maestro interiore, daimon, Tenchi Kane no Kami, Genitore Divino dell’Universo, Kami Dorato del Cielo e della Terra, oppure spirito dell’energia e delle dinamiche universali, come è definito nello shintoismo giapponese. Quando le voci esterne sono gravi e pessimiste, è fondamentale lasciarsi guidare dal proprio kami, dal proprio spirito.

L’esperienza della malattia mi ha dato moltissimo. Non mi ha insegnato a occuparmi maggiormente di me, ma, al contrario, a superare ulteriormente il senso dell’Io. Non mi ha indotta a operare cambiamenti nel mio stile di vita, dal momento che già seguivo una disciplina psicofisica ideale per me. Non mi ha spinta a cambiare qualcosa nelle mie abitudini o nelle mie relazioni. All’opposto, mi ha condotta a intensificare la mia resa, quello stato di surrender grazie al quale ti rendi conto che la sola cosa che veramente sai è di non sapere. Quando tutte le teorie e le certezze si frantumano, ci si ritrova ad attraversare la morte che porta alla rinascita: si tratta di un rito di passaggio.
Ho vissuto il periodo della cura come un rituale e l’operazione chirurgica come l’offerta sacra indispensabile al rito. Mi sono resa conto che noi esseri umani ci siamo arrogati un potere sulla natura che tentiamo di esercitare attraverso la mente. Questo potere va restituito e la malattia è l’occasione per farlo. Una porzione di corpo che se ne va è il simbolo di questa restituzione per mezzo della quale possiamo ristabilire l’equilibrio primevo, l’ordine universale.

Viviamo in un mondo simbolico dove ogni forma della materia è simbolo di un’azione spirituale. Quando la mia capacità di surrender è stata totale io sono guarita, la malattia se n’è andata, proprio come un kami, un daimon, un grande spirito che ha svolto il suo compito e lascia il campo ad altri spiriti, come un soffio di vento che ha plasmato l’anima e torna alla sua origine. Ancora oggi non ho smesso di ringraziarlo. È stato uno dei più importanti kintsugi che io abbia mai realizzato. Un giorno, al Kōya-san, in Giappone, ho ascoltato Noburo Okuda Dō -lo sciamano di tradizione Yamabushi, maestro di kintsugi a cui spesso faccio riferimento nel libro- parlare dei tre ingredienti fondamentali per operare il kintsugi dell’anima: piacere, entusiasmo, solitudine. Allora mi sono resa conto che nella mia avventura con la malattia li avevo utilizzati tutti e tre alla massima intensità. Una parte di me sapeva esattamente come sarebbero andate le cose, ma tutto il resto di me era bombardato da diagnosi severe, sguardi compassionevoli e previsioni luttuose. Perciò mi gustavo ogni respiro non sapendo quanti ne avrei avuti ancora. Mi addentravo nel bosco e mi soffermavo a osservare ogni dettaglio e lo scoprivo come non l’avevo mai visto, ogni giorno incontravo nuove piante e nuovi animali. Una forma mai conosciuta prima di entusiasmo nasceva in me. Ero entusiasta di tutto ciò che non avevo compiuto e che sentivo di dover compiere in questa vita. Quando l’entusiasmo sorgeva in me, sentivo che non potevo morire, non ancora, non prima di aver portato a termine tutto ciò che doveva essere fatto e che non avevo compiuto.

Non ho detto a nessuno della mia malattia, se non ai miei famigliari. Ho voluto però che non interrompessero la loro vita per starmi vicino. I miei figli vivevano nel Regno Unito con il padre, là frequentavano le scuole, mentre io, da sola, sono tornata in Svizzera per affrontare il mio rito di passaggio. La solitudine ha costituito una porzione notevole del mio rituale, contribuendo a evidenziarne la sacralità. La solitudine, il silenzio, l’entusiasmo per tutto ciò che poteva essere e che ancora non era stato, il piacere di essere viva, che la malattia esaltava in ogni istante, il piacere delle piccole cose: la bellezza di un fiore, di un’alba, della luna. Tutto ciò mi ha permesso di compiere il mio rituale di kintsugi e di riparare con l’oro la mia anima frantumata.

5- Qual è l’augurio che vorrebbe donare ad ogni persona che legge i suoi libri?

Come dico nel libro, il più bell’augurio che possiamo farci non è quello di non incappare in ferite o rotture, ma quello di avere ferite preziose, cicatrici riparate con l’oro dalle quali può penetrare la vita.

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Ispirato al libro è previsto anche uno spettacolo teatrale al Teatro Orione di Roma il prossimo 1 dicembre. Non uno spettacolo qualunque, ma un evento che intreccerà musica, narrazione e pratica rituale con il coinvolgimento del pubblico.

Qui potete acquistare i biglietti: https://www.eventbrite.com/e/biglietti-kintsugi-al-teatro-orione-di-roma-1-dicembre-2023-711457938847





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