Ospitiamo ancora una volta tra le nostre pagine una riflessione di Annamaria Manzoni, psicoterapeuta e attivista animalista, in merito all’utilizzo del linguaggio riguardante un fatto accaduto proprio in questi giorni.
Si può cominciare dalla constatazione che metafore dal mondo animale sono regolarmente e sapientemente utilizzate nel corso delle guerre, antiche e moderne, quando la necessità di solleticare i peggiori istinti, di animare un odio che stenta a svilupparsi perché non è nutrito da alcuna ragione, connota con epiteti animali il nemico: lo scopo, purtroppo raggiunto, è quello che l’altro viene disumanizzato, abbassato al rango di animale non umano, e in questo modo reso più facile vittima di una violenza irragionevole. “Prima di morire, la vittima deve essere degradata, affinchè l’uccisore senta meno il peso della sua colpa” commenta lucidamente Primo Levi (“I sommersi e i salvati”, Einaudi 1986) cercando l’introvabile senso degli orrori di Auschwitz.
Ma ci sono sottigliezze maggiori: basta pensare alle espressioni del tipo “essere trattato come una bestia”, “nemmeno gli animali si trattano così”, “essere stipati come animali al macello”: la gravità di questo linguaggio consiste nell’implicita legittimazione del male che viene agito: il messaggio subliminale veicolato è che non dovrebbe essere lecito sottoporre gli umani alle vessazioni che è normale invece riservare ai non umani, loro appannaggio per una sorta di legge di natura.
Allo stesso modo “sentirsi come un cane bastonato”, “uccidere il vitello grasso”, “tagliare la testa al toro” sono espressioni che si riferiscono ad abitudini crudeli, a cui in questo modo viene concesso un indiscutibile diritto di cittadinanza, perché ci si riferisce alla loro “normalità”, citandole al netto di ogni connotazione compassionevole o critica.
Si può entrare in campi ancora diversi, in cui la degradazione dell’animale non umano non appartiene più alla lingua parlata, imprecisa per definizione, ma viene elevata a concetto economico: in questo ambito esiste un termine, “commodities”, che designa le materie prime necessarie alla vita dell’uomo e soggette alla variazioni di borsa: tra queste, oltre a beni di consumo quali oro, argento, benzina, gas, caffè o soia, si trovano le voci “bovini vivi”, “suini”: quindi grandi animali dotati di vita, sentimenti, bisogni ed emozioni vengono accomunati con un unico termine a sostanze inanimate o vegetali, con l’imprimatur delle leggi dell’economia.
Ancora: tutto ciò che concerne gli animali non umani cerca nel linguaggio termini che consentano di marcare una diversità rispetto alle identiche situazioni che coinvolgono gli umani: non si parla di salme o di cadaveri, ma di carcasse; loro non vengono cremati, ma smaltiti, come i rifiuti.
E’ del tutto evidente che le parole dell’on. Calderoli fossero ben connesse all’intenzione di offendere il ministro Kienge, causa la sua colpa di essere donna di colore. Al di là delle forzate scuse che ha dovuto presentare, sarà presumibilmente lungo il tempo a lui necessario per elaborare una diversa visione del mondo, se mai dovesse ritenerla compito necessario. Quella a cui tutti noi siamo chiamati, per altro, è una ancora più totale inversione nella visione del mondo, tale per cui il richiamo ad un animale, quale che esso sia, sia in grado di sollecitare nel nostro immaginario non la percezione di una subalternità degradata, ricettacolo delle nostre parti peggiori, ma un lusinghiero richiamo all’infinita ricchezza delle loro vite”.