Animalismo
Il pensiero di Annamaria Manzoni
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Una riflessione sul linguaggio: "l'onorevole e l'orango" di Annamaria Manzoni

Di Redazione - 24 Luglio 2013

Ospitiamo ancora una volta tra le nostre pagine una riflessione di Annamaria Manzoni, psicoterapeuta e attivista animalista, in merito all’utilizzo del linguaggio riguardante un fatto accaduto proprio in questi giorni.

“L’onorevole (a quando la messa al bando degli ossimori?!?) Calderoli che pensa ad un orango quando guarda il ministro Kienge è l’occasione per alcune riflessioni sul linguaggio.
Linguaggio che non è mai casuale: veicola informazioni, idee, modi di pensare non solo attraverso l’elaborazione del pensiero, ma anche grazie all’uso dei termini che sempre sono carichi di un significato che va oltre il letterale per includere il suggerito, il metaforico, il simbolico.Il mondo animale, in questo senso, è un pozzo senza fondo di idee, qualche volta frutto di associazioni logiche, molto più spesso legate alla rappresentazione che degli animali abbiamo costruito, altre volte ancora connesse ad una distorsione di pensiero.
Si può cominciare dalla constatazione che metafore dal mondo animale sono regolarmente e sapientemente utilizzate nel corso delle guerre, antiche e moderne, quando la necessità di solleticare i peggiori istinti, di animare un odio che stenta a svilupparsi perché non è nutrito da alcuna ragione, connota con epiteti animali il nemico: lo scopo, purtroppo raggiunto, è quello che l’altro viene disumanizzato, abbassato al rango di animale non umano, e in questo modo reso più facile vittima di una violenza irragionevole. “Prima di morire, la vittima deve essere degradata, affinchè l’uccisore senta meno il peso della sua colpa” commenta lucidamente Primo Levi (“I sommersi e i salvati”, Einaudi 1986) cercando l’introvabile senso degli orrori di Auschwitz.
L’elenco è quanto mai vasto: era Churchill a parlare del “cane giapponese”, i giapponesi definivano “maiali” i cinesi, “topi di fogna” erano gli ebrei durante il nazismo, “scarafaggi” i tutsi nel massacro a colpi di machete in Ruanda, “tacchini” gli iracheni in fuga nella guerra del golfo; topi drogati, nel linguaggio di Gheddafi, i ribelli che lo stavano spodestando nella guerra civile del 2011.In tempo di pace le cose non vanno meglio: esiste un dirompente meccanismo di proiezione per cui il peggio che si annida nel nostro mondo di istinti e passioni inconfessabili non viene riconosciuto come intrinsecamente parte di noi, ma rifiutato e gettato addosso ad altra specie: così noi ci ripuliamo, ce ne liberiamo, e, contestualmente, costruiamo dell’altro una rappresentazione falsa e funzionale ai nostri scopi.
Appartiene al linguaggio comune, a cui i media attingono allegramente e senza riflessione, l’uso di etichettare come “bestia” e “animale” chiunque si macchi di crimini orrendi; “un vero maiale” è chi non sa governare i propri istinti e si lascia andare all’esternazione di una natura sporca, grassa, indecente; “un verme” è un inetto, un pavido che non vive a testa alta, ma striscia per colpire nascondendosi.Un fantasioso campionario si arricchisce dell’insulto di essere “sciacalli” a quegli umani che approfittano delle disgrazie altrui per infierire ulteriormente su chi è già in disgrazia, con buona pace degli sciacalli veri, che invece restano in paziente attesa dei resti dei banchetti altrui; “il branco” è quello dei giovani stupratori di donne del tutto indifese, i quali traggono forza dal numero, benché davvero non si sappia a quale animale si affaccerebbero alla mente imprese del genere; “matador” è il giocatore che ha compiuto la strabiliante impresa di infilare un pallone in rete, senza un pensiero all’orrore indicibile che il temine dovrebbe richiamare.
Ma ci sono sottigliezze maggiori: basta pensare alle espressioni del tipo “essere trattato come una bestia”, “nemmeno gli animali si trattano così”, “essere stipati come animali al macello”: la gravità di questo linguaggio consiste nell’implicita legittimazione del male che viene agito: il messaggio subliminale veicolato è che non dovrebbe essere lecito sottoporre gli umani alle vessazioni che è normale invece riservare ai non umani, loro appannaggio per una sorta di legge di natura.
Allo stesso modo “sentirsi come un cane bastonato”, “uccidere il vitello grasso”, “tagliare la testa al toro” sono espressioni che si riferiscono ad abitudini crudeli, a cui in questo modo viene concesso un indiscutibile diritto di cittadinanza, perché ci si riferisce alla loro “normalità”, citandole al netto di ogni connotazione compassionevole o critica.
Si può entrare in campi ancora diversi, in cui la degradazione dell’animale non umano non appartiene più alla lingua parlata, imprecisa per definizione, ma viene elevata a concetto economico: in questo ambito esiste un termine, “commodities”, che designa le materie prime necessarie alla vita dell’uomo e soggette alla variazioni di borsa: tra queste, oltre a beni di consumo quali oro, argento, benzina, gas, caffè o soia, si trovano le voci “bovini vivi”, “suini”: quindi grandi animali dotati di vita, sentimenti, bisogni ed emozioni vengono accomunati con un unico termine a sostanze inanimate o vegetali, con l’imprimatur delle leggi dell’economia.
Ancora: tutto ciò che concerne gli animali non umani cerca nel linguaggio termini che consentano di marcare una diversità rispetto alle identiche situazioni che coinvolgono gli umani: non si parla di salme o di cadaveri, ma di carcasse; loro non vengono cremati, ma smaltiti, come i rifiuti.
Quando invece termini come dolore e sofferenza vengono riferiti ad animali impiegati nella vivisezione, sulle riviste scientifiche vengono virgolettati, quale messaggio implicito che il senso non equivale a quello destinato agli umani, ma viene usato giusto per suggerire, marcando al tempo stesso una diversità.Tra linguaggio e pensiero esiste una dinamica di reciproco influenzamento: il pensiero si esprime attraverso il linguaggio, ma il linguaggio a sua volta ridetermina il pensiero. Rivedere drasticamente il linguaggio è allora necessità imprescindibile: bisogna rompere l’abitudine e la desensibilizzazione con cui il suo uso scorretto è fortemente connesso e riappropriarsi di una modalità di comunicazione in grado di riflettere i pensieri e di generarne di nuovi: anche da qui si origina il cambiamento che urge.
E’ del tutto evidente che le parole dell’on. Calderoli fossero ben connesse all’intenzione di offendere il ministro Kienge, causa la sua colpa di essere donna di colore. Al di là delle forzate scuse che ha dovuto presentare, sarà presumibilmente lungo il tempo a lui necessario per elaborare una diversa visione del mondo, se mai dovesse ritenerla compito necessario. Quella a cui tutti noi siamo chiamati, per altro, è una ancora più totale inversione nella visione del mondo, tale per cui il richiamo ad un animale, quale che esso sia, sia in grado di sollecitare nel nostro immaginario non la percezione di una subalternità degradata, ricettacolo delle nostre parti peggiori, ma un lusinghiero richiamo all’infinita ricchezza delle loro vite”.




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