Psicologia

Perdere un caro per suicidio: come affrontare il lutto

Di Cristina Rubano - 24 Maggio 2022

Il lutto di una persona cara morta per suicidio è un passaggio gravoso e doloroso per la psiche. Implica una profonda e difficile revisione della persona scomparsa. E una presa di distanza non sempre facile, ma vitale, dalle emozioni che questo tipo di evento suscita. Solo così il senso di colpa tanto irrazionale quanto divorante, potrà lasciare il passo ad un nuovo adattamento alla vita.

Il trauma di chi resta

Il suicidio rappresenta una causa di morte che spesso connota l’evento perdita come traumatico per chi lo subisce. Tutte le cause di morte violenta, comprese quelle in cui sia impossibile recuperare il corpo, rendono questo evento potenzialmente traumatico.

In simili circostanze, infatti, la portata violenta e inaspettata della morte, il valore affettivo della relazione che si aveva col defunto e proprie vulnerabilità individuali possono rendere piuttosto difficoltosi sia l’accettazione della perdita che il lavoro di elaborazione del lutto.

Le persone che “rimangono” possono attraversare lutti persistenti e complicati, avere difficoltà ad accettare emotivamente l’evento o manifestare veri e propri disturbi depressivi o da stress post traumatico.

Perdere una persona cara per suicidio può essere una vicenda psichicamente complessa, oltre che dolorosa. La persona che rimane deve combattere con vissuti di colpa, disperazione e incredulità che, altrimenti, possono lentamente lasciar “morire” una parte della propria personalità.

Suicidio e disturbi mentali

Sebbene l’idea del suicidio appaia sconcertante e provochi reazioni immediate e piuttosto nette nella maggior parte delle persone, i suicidi non sono tutti uguali.

Alcune persone, spesso con disturbi gravi della personalità, commettono atti autolesionistici e tentativi di suicidio senza voler realmente porre fine alla propria vita. Questi comportamenti possono avere uno scopo dimostrativo, al fine ad esempio di attirare le attenzioni e le cure di altre persone. Si tratta comunque di atti che possono mettere, seppur accidentalmente, in serio pericolo la vita della persona e che non vanno mai sottovalutati.

Altre persone purtroppo sono invece determinate a porre fine alla propria vita e spesso lo fanno realmente senza tentativi o gesti dimostrativi alle spalle.

Alcune persone si limitano a pensare al suicidio come idea teorica e passeggera. Spesso rimangono anche molto spaventate da questo pensiero che è in realtà più comune di quanto non si creda nella popolazione generale. Pensare al suicidio non significa tout court essere psichicamente nella condizione di metterlo in atto.

Solo una minoranza di persone persegue questi pensieri in forme man mano sempre più concrete. Pensando ad esempio ai mezzi da utilizzare, a come procurarseli e a quando utilizzarli. Alle volte le persone che si ritrovano in simili circostanze, e che sono consapevoli magari di avere un grave disturbo mentale (una grave depressione ad esempio), lanciano un allarme e chiamano i soccorsi.

Altre purtroppo non sono in condizione di percepire le proprie intenzioni suicide in modo così distonico. Queste sentono solo il suicidio come unica via d’uscita dal dolore mentale e dalla sofferenza. Altre ancora possono ideare e commettere il suicidio in preda a stati dissociativi.

In tutti questi casi il suicidio è l’estremo gesto derivante da un disturbo di natura psichica. Ciò vuol dire che il dolore mentale non può più essere sperimentato come tale, il piano mentale e  quello concreto collassano l’uno sull’altro. E ciò da cui la persona vuole liberarsi diventa non più uno stato della mente, ma la propria persona fisica.

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Il significato del senso di colpa

donna con fiori su una lapide
Credit foto ©Pexels

Quando si perde una persona per suicidio due sono, fra gli altri, gli aspetti che, in maniera trasversale, connotano il dolore e il lutto di chi rimane. Il primo è il senso di colpa che domina l’emozionalità. Il secondo l’incredulità che governa il piano cognitivo del pensiero.

Chi rimane, infatti, può vivere forti e dolori sensi di colpa e aver difficoltà ad accettare cognitivamente l’accaduto.

Per quanto dilaniante, il senso di colpa in questi casi è spesso un tentativo di adattamento ad un evento impensabile e inaccettabile che appare sfuggire a qualunque logica di senso. L’urgenza e la portata del senso di colpa può essere del tutto irragionevole e irrealistica ma non per questo meno schiacciante.

Si è di fronte a un evento di cui appare impossibile cogliere il senso e che lascia completamente impotenti. Attribuirsi sensi di colpa implica ricondurre a sé una parte di responsabilità di quanto accaduto. Significa cercare, in un modo disfunzionale e irrazionale certo, di riprendere il controllo per non affrontare il senso di impotenza e assoluta solitudine che un simile evento sollecita in chi resta.

Se una persona si trova in una condizione di tale sofferenza e regressione psichica da commettere un suicidio, difficilmente ne parlerà o potrà essere fermata. Non si può essere responsabili per la vita di qualcun altro, del suo tenersi in vita. Spesso questa è una dolorosa realtà con cui si scontrano anche i professionisti della salute mentale.

Sopravvivere al suicidio di un proprio caro

Il senso di colpa va attraversato, elaborato e compreso e pian piano superato. Questo avverrà quando la psiche della persona sarà pronta a confrontarsi con la reale portata dell’evento. Quando potrà riconoscere e restituire (pur dolorosamente) la responsabilità dell’accaduto al suicida. E quando, infine, sarà in condizione di accettare che l’affetto o l’amore che la legava al defunto non sono stati sufficienti a mantenerne l’attaccamento alla vita.

Quest’ultimo aspetto rappresenta forse il dolore più grande per un partner, un genitore o un figlio che “resta”. In questa ottica il suicidio di un proprio caro può essere vissuto come un tradimento al legame affettivo e generare, oltre a sensi di colpa, molta rabbia. Rabbia che spesso si fatica a riconoscere e ad esprimere e che tuttavia andrebbe contattata con onestà. Sia perché rappresenta un lato “umano” dell’esperienza di coloro che vivono situazioni di questo tipo e accettare le proprie umane fragilità è sempre meglio che negarle. Sia perché può rappresentare la prima presa di distanza da quel senso di colpa schiacciante che rischia di tirarci psichicamente giù a fondo con lui/lei che la morte la hanno cercata e trovata concretamente. Fare questo percorso non è facile e spesso può essere di aiuto intraprendere una psicoterapia e/o un percorso di sostegno di gruppo.

Se si riesce a operare questa presa di distanza sarà possibile poi anche comprendere, ma non per questo condividere, le ragioni e le difficoltà del suicida e scegliere per sé stessi la vita. Chi ha perso una persona cara per suicidio è a tutti gli effetti, psichicamente, un sopravvissuto. Un sopravvissuto che può scegliere pienamente la vita.

“Non permettere alle ferite di trasformarti in quello che non sei.”

(Paulo Coelho)





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