In tutti noi albergano sentimenti di odio, paura, rabbia o rimorso. Rappresentano aspetti della nostra personalità che spesso non ci piacciono o vorremmo celare a noi stessi. Dobbiamo invece riconoscerli e integrarli in ciò che più autenticamente siamo, pena il venir perseguitati da questi aspetti “oscuri”, come una sorta di alter ego con cui dobbiamo, prima o poi, venire a patti per non esserne sopraffatti.
Una metafora di questo può essere rintracciata nel mito greco delle Erinni, divinità persecutorie e terrifiche, capaci tuttavia di mostrare anche un lato benevolo (venivano allora chiamate Eumenidi) allorquando gli esseri umani fossero disposti a riconoscere e pentirsi delle proprie “colpe”.
Il mito greco delle Erinni
Le Erinni nella mitologia greca erano tre divinità nate dall’evirazione di Urano da parte di suo figlio Crono. Personificavano il rimorso e la maledizione divina che colpiva chiunque si macchiasse di un delitto di sangue, in particolare contro un familiare o un congiunto. Euripide le identifica come: Aletto (il turbamento che non lascia riposo), Tisifone (la punizione per i delitti come il matricidio, il parricidio o il fratricidio) e Megera (per i delitti connessi al tradimento e all’infedeltà coniugale).
Secondo il mito, ogni mese queste divinità scendevano sulla terra per punire i colpevoli che, perseguitati dal rimorso, erano indotti alla follia e alla sventura. Ma potevano anche mostrare il proprio lato benevolo – come Eumenidi – qualora il reo giungesse a sincero pentimento riconoscendo il proprio misfatto.
Cosa ha a che fare il mito greco delle Erinni – o meglio il dualismo Erinni-Eumenidi – con l’alter ego in psicologia?
“Dentro di noi abbiamo un’Ombra: un tipo molto cattivo, molto povero, che dobbiamo accettare.”
(C.G. Jung)
Leggi anche —> Il mito di Amore e psiche ci insegna ad amare con l’anima
Il significato di alter ego in psicologia
Troviamo un celebre esempio di alter ego nel film Fight Club (1993) che molti ricorderanno. La trama è incentrata sulle vicende di un anonimo protagonista: un impiegato dedito a una grigia vita sociale e a notti insonni, che riesce a provare coinvolgimento affettivo solo per i membri di un gruppo per malati terminali che frequenta come impostore. La sua vita subisce un cambiamento quando incontra Tyler Durden, un personaggio stravagante e, al contrario di lui, assolutamente fuori dagli schemi. Tyler altro non è che l’esuberante alter ego del suo anonimo compagno, un condensato di tutta la rabbia e la frustrazione che questo ha sepolto dentro di sé e che può esprimersi solo nella forma assoluta e distruttiva del suo alter ego. Tyler prima lotta con il suo stesso “doppio” e poi contro le istituzioni del “sistema” sociale che ha intorno.
L’anonimo protagonista rivela dunque una doppia personalità, due parti non comunicanti fra loro. Da un lato, il grigio impiegato ligio al “sistema”, schiavo del consumismo, privo di sentimenti, opinioni e iniziative; privo, in altre parole, di una qualche identità. Dall’altro, la “furia” omicida con la quale egli esprime tutta la propria rabbia e frustrazione denegando tali sentimenti in sé stesso e proiettandoli all’esterno: in un “altro” da sé, in una società vista come causa di ogni male e sopraffazione.
Il protagonista del film, proprio come nel mito greco delle Erinni, continuerà a sentirsi “perseguitato” dalla figura di Tyler fino a quando, nell’ennesima lotta con il suo alter ego, riuscirà a superare questa scissione e ad integrare entrambe le parti in un’unica personalità.
“Io non sono te e tu non sei me. Però, tutti e due siamo noi.”
(Luciano De Crescenzo)
Leggi anche —> Il mito della Fenice che rinasce dalle proprie ceneri
Sdoppiamento di personalità o normale dicotomia?
Quello del film Fight Club è un esempio di disturbo della doppia personalità, una patologia per la verità piuttosto rara, che mostra le estreme conseguenze della dissociazione qualora tale meccanismo, a seguito di gravi o ricorrenti esperienze traumatiche, finisca per separare stabilmente uno o più modi di essere del soggetto dal resto della sua personalità. In questi casi ciò che viene “messo da parte” non è soltanto l’evento in sé, ma i modi di pensare, sentire e comportarsi che la persona associa a tali eventi. Ne deriva una personalità “monca”, priva di tridimensionalità, perché costretta ad esprimersi entro i ristretti perimetri della dissociazione.
Ma in forme meno patologiche, tutti noi abbiamo lati che non ci piacciono, aspetti contraddittori del nostro modo di pensare o di sentire che ci infastidiscono o che rischiano di destabilizzarci. Se li mettiamo da parte, rischiamo che questi aspetti più in “ombra” diventino sempre più imponenti e che, come le Erinni, finiscano per perseguitarci sottoforma di sintomi depressivi, ansiosi o psicosomatici o, ancora, agiti aggressivi o distruttivi. Solo riconoscendoli con benevolenza e integrandoli nel nostro essere potremo sentirci persone complete e consapevoli, tanto dei nostri pregi quanto dei nostri difetti o imperfezioni.
“Prima di raggiungere la pace con se stessi bisogna aver perdute molte logoranti battaglie contro l’io e infine anche la propria guerra.”
Alessandro Morandotti
Leggi anche —> Il mito di Narciso e il suo significato psicologico
La personalità è una questione caleidoscopica
L’integrità di una personalità sana e in equilibrio non sta in un unico modo di sentirsi e di pensare ma, al contrario, nella capacità di saper riconoscere e “tenere insieme” più punti di vista, diverse emozioni, variegate motivazioni in ciò che viviamo e facciamo. Piuttosto che essere minacciati dalla molteplicità che è in noi, possiamo accoglierla come una ricchezza di cui tener conto per fare scelte che tengano conto di tutte le istanze e i bisogni della nostra personalità. Sebbene ci piaccia pensare di poter essere persone “tutte d’un pezzo”, il più delle volte agiamo mossi da motivazioni variegate e contrastanti fra le quali siamo continuamente chiamati a operare una mediazione. Ad esempio, una giovane madre può essere gratificata dall’esperienza della maternità, ma al tempo stesso sentirsi affaticata e desiderare di tornare al lavoro e riappropriarsi della sua vita professionale.
Un adolescente può agire spinto dal forte desiderio di autonomia, ma avere al tempo stesso ancora bisogno di tanto in tanto di ritrovare in famiglia quella cura rassicurante dell’infanzia. O, ancora, un uomo giunto alla mezza età può essere affettuosamente gratificato dal suo nuovo status di nonno, ma al tempo stesso vivere questo “passaggio” della vita come dolorosa e definitiva perdita della giovinezza… Nella maggior parte dei casi nessuno di noi è solo “buono” o “cattivo”, ma serba in sé un mix di bisogni, desideri, emozioni che rendono l’approccio all’esperienza più sfumato e variegato di quanto non si crederebbe. E non è affatto un male, anzi, ascoltare le proprie “voci” interne, i plurimi punti di vista che possiamo avere sulle cose – anche quelli dettati dalle parti di noi più “scomode” o “politicamente scorrette” – può rappresentare una strategia di grande utilità per prendere decisioni e risolvere problemi.
Leggi anche —> Il vaso di Pandora, aprirlo per poter rinascere
Immaginate di avere a disposizione 6 cappelli di colori diversi…
La tecnica dei “Sei cappelli per pensare” di De Bono (1985) è un esempio illuminante di come poter fare questo. Quando dovete trovare una soluzione o prendere una decisione su qualcosa immaginate di avere a disposizione 6 cappelli di colori diversi da indossare metaforicamente, corrispondenti ognuno ad un diverso punto di vista sulle cose.
- Il cappello bianco, quello che consente di adottare un punto di vista realista, di raccogliere informazioni e dati oggettivi sul problema.
- Il cappello rosso, indispensabile per avere anche una comprensione emozionale e guardare alle cose anche con un approccio più “intuitivo”.
- Il cappello nero, con cui poter esprimere tutto il pessimismo di cui siete capaci: quali sono i rischi di certe scelte, cosa potrebbe andare male o non funzionare, quali potrebbero essere le difficoltà da affrontare: è il vostro “avvocato del diavolo” e può essere molto utile a patto che… non diventi l’unica voce del coro!
- Il cappello giallo è quello che vi aiuta a focalizzarvi sui “pro” invece che sui “contro”, che attinge da motivazione, speranza e fiducia: consente di mantenere una posizione ottimista sulle cose anche quando non ci siano elementi di garanzia.
- Il cappello verde è quello creativo, che indosserete per fare il vostro piccolo brainstorming mentale, per lasciar vagare la mente fra le idee più bizzarre e inconsuete e far emergere nuove soluzioni.
- Ultimo, ma non per importanza, il cappello blu: il vostro “supervisore” interno chiamato a mantenere un punto di vista “esterno” a tutti gli altri e a mediare e integrare i diversi unti di vista.
“Ognuno di noi ha un accompagnamento musicale interiore. E se gli altri l’ascoltano bene, si chiama personalità”.
(Gilbert Cesbron)
Cristina Rubano