Benessere

Fare un cammino di consapevolezza non rende buoni, ma scomodi e incompresi

Di Redazione - 11 Luglio 2022

 I percorsi di miglioramento personale più diffusi e quotati promettono il raggiungimento di obiettivi come salute, successo, serenità, benessere e la tanto osannata consapevolezza. Fatta eccezione per pochi, molti coach, guru o comunque li si voglia chiamare, dribblano abilmente le “seccature” del viaggio per offrire ai partecipanti formule preconfezionate che consentano di conseguire, possibilmente in tempi rapidi e in modo indolore, gli obiettivi prefissati. L’oscurità, d’altra parte, è guardata con sospetto, così come ogni forma di giudizio e contrarietà. Essere spirituali oggi significa (spesso) essere positivi a prescindere, essere sempre e comunque grati, non porsi troppe domande perché l’universo di per sé è perfetto, a prescindere, non avere troppi dubbi e ottenere risposte (rapidamente).

E’ davvero così o è l’ennesima illusione?

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La consapevolezza assicura il successo e il benessere?

La realizzazione spirituale, in questo panorama confuso, diventa sinonimo di soddisfazione dei propri desideri, che a volte sono più che altro capricci. La domanda sorge spontanea: raggiungere la consapevolezza, scoprire la propria vocazione autentica (che ha profondamente a che fare con la consapevolezza), “individuarsi” per dirla alla Jung, significa assicurarsi una vita all’insegna del benessere?

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Molti coach ci dicono che una volta scoperta la propria strada, voilà, la vita diventa improvvisamente un sogno paradisiaco. E’ davvero così? E se la felicità consistesse in una vita piena, con tutto ciò che comporta nel bene e nel male, anziché in una vita serena?

“Pensare di poter sistemare e risolvere tutto è un errore.
Il mistero della vita è che il male esiste, che le tensioni non possono essere soppresse e che noi ci siamo dentro; che si deve fare il possibile, senza lasciarsi dominare e senza mai ritenere di possedere la verità assoluta. Bisogna accettare la condizione umana, sapere che un certo dubitare non si oppone alla fede; sapere che il senso di contingenza è necessario alla nostra vita. Devo rendermi conto che sono una parte di questa realtà e che non spetta a me controllarla; scoprire il senso della vita nella gioia, nella sofferenza, nelle passioni; invece di lamentare la difficoltà del vivere, rimandando ad un giorno che non arriva mai il momento di godere profondamente di questa vita, trovare questo senso in ogni istante”.

Raimon Panikkar

La storia ci parla continuamente di grandi uomini e donne che hanno sacrificato o addirittura perso la vita in nome dei propri ideali, personaggi senz’altro consapevoli del loro compito o potremmo dire della loro vocazione. Pensate a Gandhi e alle sue pacifiche “lotte” in nome della non violenza. Di certo, come lui stesso affermò, non fu una vita facile la sua:

La mia vita è stata piena di tragedie e se esse non hanno lasciato alcun tipo di visibile e indelebile effetto su di me, io devo questo agli insegnamenti del Bhagavad Gita (testo sacro induista)“.

E che dire di un Mandela, incarcerato per ben 27 anni nella prigione di Robben Island, accusato di viaggi illegali all’estero e incitamento allo sciopero. Mandela, riferendosi alla libertà, disse:

Non c’è nessuna strada facile per la libertà!“.

Nella vita di ognuno di noi non sarà indispensabile arrivare a tanto ma i loro esempi dovrebbero perlomeno farci riflettere: siamo sicuri che la consapevolezza autentica vada di pari passo con il successo comunemente inteso o che le due cose siano in qualche modo collegate? Siamo certi che scoprire per cosa siamo venuti al mondo, ovvero la nostra, vocazione renda la vita più facile, appagante e serena? O forse stiamo confondendo le cose?

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Il cammino della consapevolezza comporta rischi

Claudio Marucchi, laureatosi in “Religioni e Filosofie dell’India e dell’Estremo Oriente”,  in una sua intervista, afferma:

Nell’India vedica, la ricerca della felicità era considerata il livello più infimo del percorso di realizzazione, qualcosa che ci rende più simili alle bestie che al divino. Un sorriso inebetito dipinto sul volto oggi viene scambiato per sintomo di “risveglio”. Sembra che gli zombi si credano improvvisamente “viventi”, dimenticando di essere comunque, innanzitutto, “morti”. In compenso, tutto ciò che ha sempre consentito un contatto profondo con il proprio centro – l’estasi ed il dolore, la notte, la solitudine, l’emarginazione, le tenebre, la discesa, il vuoto e persino il terrore – vengono considerati come sintomi di distanza dallo spirito, vissuti come errori, o problemi da evitare. Si sono rovesciati i termini: se stai bene sei realizzato spiritualmente, il che è l’opposto di tutto ciò che ha contraddistinto i cammini interiori, costellati di cadute e risalite, di follia e dolore, di estasi e di emarginazione… La finzione del benessere è scambiata per spiritualità. Il culto della propria salute è confuso con la spiritualità. Un insieme di frustrazioni attende i cultori di questa falsificazione.”

Marucchi sottolinea che la spiritualità odierna è molto legata a concetti come purificazione, pulizia, salute, luce, benessere e assolutamente distante dalle tenebre, dal mischiarsi, dalla perdita di controllo, che hanno invece un ruolo fondamentale per chi intraprende un percorso di questo tipo. Se poi tutto questo viene impachettato e venduto sotto forma di metodo/tecnica, l’occidentale abbocca facilmente perché il “metodo” risponde alla nostra esigenza di pulizia, controllo, organizzazione, classificazione, delimitazione.

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donna e uomo che guardano davanti a sè

Credit foto
© Pixabay

Questo significa che gli occidentali non possano seguire percorsi simili? Assolutamente no, ma illudersi di poter accedere alla consapevolezza con qualche corso, scuola o lettura illuminata, è di per sé improbabile. Perché l’obiettivo di percorsi simili, se autentici, non è la realizzazione egoistica dei propri desideri, che ciò nonostante possono esaudirsi, ma qualcosa di indicibile, profondo, realmente esoterico, nel senso di “interiore” e “nascosto”, qualcosa che può fare male a chi non è pronto e che pertanto deve rimanere segreto.

Perché non provare a chiederci fino a che punto, in nome della cosiddetta consapevolezza, siamo disposti a rinunciare allo status quo e alle certezze accumulate nel tempo.

Cosa desideriamo nel profondo del cuore? ll successo? L’ammirazione altrui? La fama? Il denaro? E se tutto questo ci fosse negato, perché la nostra vocazione autentica non comporta realizzazione terrena, saremmo disposti a seguirla? E se sapessimo che il raggiungimento della consapevolezza ci renderà la vita meravigliosa, ma difficile e complicata, lo desidereremmo comunque?

Queste domande possono aiutarci a capire se esiste in noi un autentico desiderio di vedere oltre l’apparenza perché mettono in discussione l’idea tanto diffusa che la consapevolezza, e i percorsi spirituali, siano giochi da ragazzi, viaggi senza rischi, incoraggiandoci a dubitare delle risposte facili.
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