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Mafia nigeriana, arrestate 34 persone in Italia: ecco cosa c'è dietro il traffico di donne indotte alla prostituzione

Di Daniela Bella - 11 Febbraio 2014

Nigeriani che operano con le stesse modalità della criminalità organizzata. Sì, proprio così.

Lo scorso 5 Febbraio, tra la capitale Roma e Torino, Parma, Firenze e Imperia, i carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Roma hanno arrestato ben 34 persone, prevalentemente originarie della Nigeria, tutti indagati per associazione di tipo mafioso e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, aggravati dalla transnazionalità del reato, riduzione in schiavitù, tratta di esseri umani, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, sfruttamento della prostituzione, riciclaggio e altri gravi delitti.

Inoltre, sono stati inoltre sequestrati vari beni immobili, attività commerciali, disponibilità finanziarie ed autovetture, per un valore complessivo di 2 milioni di euro.

Immagine da: www.unaqualunque.it

Grazie alla cooperazione internazionale instaurata con le autorità della Repubblica togolese è stato possibile ricostruire l’intera filiera della tratta di giovani donne africane, introdotte nel nostro paese per lo sfruttamento sessuale. Per non far fuggire le giovani ragazze, inoltre, gli sfruttatori utilizzavano riti voodoo e imponevano un “riscatto” di 70mila euro.

La giornalista nigeriana Tobore Ovuorie, che si occupa del traffico di donne dal suo paese, è riuscita a infiltrarsi in una di queste reti, assistendo in incognito alle attività di bande criminali, a violenze, a un giro di soldi enorme e alle collusioni con governi e polizia.

Per farlo, Ovuorie si è vestita da ragazza squillo e, facendosi spesso notare per le vie di Lagos, comincia a far circolare la voce di essere in cerca di una protettrice.

Ecco come descrive questa agghiacciante e spredevole situazione che coinvolge le donne nigeriane, trattate come pura merce:

“Al “campo di addestramento” siamo in dieci: oltre a me, Adesuwa, Isoken, Lizzy, Mairo, Adamu, Ini, Tessy, Omai e Sammy. Abbiamo viaggiato insieme su un piccolo furgone da Lagos, sperando di arrivare presto in Italia. Siamo impazienti di passare al cosiddetto “livello successivo”: dalla prostituzione locale ai bigliettoni che speriamo di fare all’estero.

Ma prima, abbiamo scoperto, dobbiamo sottoporci a un addestramento in questo compound isolato e sorvegliato da soldati armati, sperduto da qualche parte in mezzo alla boscaglia che circonda Ikorodu.

La nostra trafficante, Mama Caro, ci dà il benvenuto in un inglese impeccabile, dicendoci quanto siamo speciali e fortunate. Poi ci fa entrare nella stanza in cui dormiremo, per terra e senza cena.

Non mi aspettavo questo. Con i colleghi avevamo fatto un’attenta valutazione dei rischi: il mio giornale The Premium Times, la mia collega Reece Adanwenon in Benin, The Zam Chronicle ad Amsterdam e io avevamo messo in piedi contatti, numeri telefonici di emergenza, case sicure, conti in banca. Avevamo previsto le modalità di trasporto e di fuga.

Reece mi aspettava a Cotonou, in Benin, per venirmi a prendere in un punto di incontro concordato. Ma non avevamo previsto che prima ci sarebbe stata un’altra tappa: questo campo isolato e sorvegliato, nel bel mezzo del nulla. In me si fa strada l’idea che potrei essere in grossi guai.

Come giornalista che si occupa di salute, avevo intervistato diverse donne reduci da sfruttamento sessuale, a cui non solo è stato chiesto di avere rapporti non protetti, ma a cui è stata negata qualsiasi forma di assistenza medica e la possibilità di tornare a casa se stavano male. Ora sono malate di aids, gonorrea, perforazioni gastrointestinali e incontinenza.

Alcune di loro, provenienti da ambienti in cui la religione tradizionale è molto forte, non hanno ricevuto le cure necessarie perché i dottori le hanno considerate “cattive”. Ero consapevole che politici, funzionari e ufficiali dell’esercito che sbandierano la loro fede aiutavano i trafficanti. Io volevo rompere questa ipocrisia e mostrare come, ogni giorno, in Nigeria chi ha il potere aiuta i criminali a rendere schiave le mie giovani connazionali…”

Gloria Erobaga, una giovane ventiquattrenne che dopo due anni sulle strade italiane come prostituta è stata rimpatriata, ha invece raccontato di come sia sopravvissuta e di come, all’epoca, si sia fatta convincere perchè le avevano promesso un “lavoro onesto”.

Ovviamente la realtà è ben diversa. Venivano controllate in continuazione, per raccogliere i soldi e per uccidere le ragazze che non pagavano. Alcune di queste, secondo la testimonianza di Erobaga, in Italia sono state uccise, tagliate e gettate in sacchi neri, così, come spazzatura.

Immagine da: www.ilcolleinforma.com

Tutto ruoto intorna alla madam, senza cui nulla sarebbe possibile: è lei che le costringe a lavorare in strada o in appartamento; è lei che chiede i soldi quotidianamente; è lei che, allo stesso tempo, provvede alla casa e a risolvere eventuali controversie.

Secondo le testimonianze, la madam punta principalmente su ragazzine inesperte, delle quali viene prima “esaminata” la spiritualità. Sì, perchè è proprio attraverso il rito vodoo che viene sancita la schiavitù fisica e psicologica della ragazza, ed è sempre attraverso il voodoo che si viene dunque a creare un legame inscindibile tra la vittima e i trafficanti.

Le donne, sottoposte a un giuramento durante il quale donano peli pubici, sangue e indumenti intimi, vengono portate da santoni della religione tradizionale o dai nuovi pastor delle chiese pentecostali che hanno invaso le strade di Benin City, disposti a celebrare il rito previo pagamento e a rendersi complici di un circuito criminale di cui ormai il voodoo è considerato in Nigeria ed Europa parte integrante.

Business vero, dove si guadagna“, ecco come viene definito tutto ciò.

Insomma, uno scenario che fa veramente accapponare la pelle solo a pensarci, figuriamoci a vederlo o, peggio ancora, viverlo. Fortuna che qualcosa pare stia cominciando a muoversi, nella speranza che venga posta la parola fine a episodi di questo tipo.

[Fonte testimonianza Tobore Ovuorie: www.internazionale.it]

[Fonte testimonianza Gloria Erobaga: www.corriere.it]

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