Nei disturbi del comportamento alimentare (DCA) il corpo diventa un sostituto della mente: è lui che assume su di sé il “peso” di conflitti e disagi della psiche e contemporaneamente diventa oggetto di attacchi, odio, disgusto… Ma quali sono le cause di tutto ciò?
Il corpo “muto” tra fame fisica e fame emotiva
L’esperienza corporea che accomuna molte persone con un disturbo dell’alimentazione – come bulimia e anoressia – è quella di un senso di estraniamento dalla propria fisicità associato tuttavia a un’elevata attenzione e preoccupazione per come il corpo appare all’esterno, come se fosse vissuto come mero involucro di cui conta solo la superficie, solo ciò che appare perché è da quello che la persona cerca di ricavare un senso di autostima, sicurezza e controllo sulla propria vita.
Le necessità interne, la vitalità biologica e le reazioni somatiche del corpo sembrano invece restare “mute”: al di là delle classificazioni diagnostiche sui vari sintomi dei disturbi alimentari, le persone con tale disagio appaiono spesso in difficoltà nel discriminare fame e sete, fame fisica e fame emotiva, stanchezza o noia, sonno o tristezza…
Quali sono le cause di questa confusività fra psiche e soma nelle persone che esprimono un disagio attraverso un disturbo dell’alimentazione?
“L’anoressia non è una malattia del corpo, è una malattia della mente.”
Lynn Crilly, Hope with Eating Disorders, 2012
La fame “infinita” nei disturbi dell’alimentazione
I disturbi alimentari possono assumere configurazioni esperienziali e sintomatologiche anche opposte: si pensi alle persone anoressiche che mantengono un’esasperante restrizione alimentare e alle persone con un disturbo da binge eating che sembrano far da controparte mostrando tutto ciò che le prime sembrano temere più di ogni altra cosa: ingrassare e mangiare a dismisura.
Eppure, sebbene differenti nel corpo e nel comportamento (non poche persone transitano nel corso del tempo da una forma all’altra del disturbo), esprimono entrambe la stessa angoscia: una fame “infinita” (che l’una contrasta e a cui l’altra si abbandona senza potersi per altro mai veramente saziare) e una estrema difficoltà a definirsi – nei propri bisogni corporei ed emozionali, nelle proprie caratteristiche individuali – come “persone” al di là di ciò che lo specchio o la pancia rimandano.
Disturbi alimentari e relazioni affettive
Per riconoscere un disturbo alimentare non basta osservare una persona “da fuori”, assicurarsi che il suo peso o la sua alimentazione rientrino nella “normalità” (ci sono persone gravemente bulimiche, ad esempio, che mantengono un peso nella norma e si dedicano alle proprie condotte di eliminazione in gran segreto). Quello che accomuna queste situazioni è spesso una difficoltà a regolare le proprie emozioni, a riconoscerle e gestirle nella propria mente, ad utilizzarle come informazioni per orientarsi nelle relazioni e nelle decisioni, a differenziarle dai bisogni corporei.
Le cause di queste difficoltà di regolazione emotiva – che è una disregolazione psico-biologica – risiedono nell’età dello sviluppo, spesso nelle relazioni affettive dell’infanzia. Le storie delle pazienti e dei pazienti con disturbo alimentare raccontano spesso di dinamiche relazionali dove, per i più diversi motivi, la persona non ha vissuto gli adulti come guide sufficientemente empatiche in grado di cogliere i suoi bisogni, tradurli in parole e soddisfarli adeguatamente.
Quello che può avvenire ad esempio è che i bisogni di un figlio vengano regolarmente fraintesi (non c’è sintonia fra adulto e bambino) o la loro espressione diventi causa di turbamento emotivo nel genitore (che potrà manifestare rabbia, ansia o disperazione) specie in famiglie dove le cure si elargiscono attraverso il canale materiale, concreto e non si esprimono le emozioni, né quelle positive né quelle problematiche. In tali condizioni spesso la persona, che poi svilupperà un disturbo alimentare, impara implicitamente a mostrarsi (esteriormente) “brava” e compiacente mettendo da parte bisogni e disagi emotivi che rimangono a uno stato “grezzo” nella mente in assenza di un adulto che sappia intercettarli, elaborarli e restituirli al bambino.
Queste persone si abituano a mostrarsi efficienti e competenti senza imparare ad ascoltare a sufficienza quali siano però le proprie emozioni, desideri, inclinazioni e bisogni. Saranno quindi facilmente turbate e destabilizzate da emozioni, perdite, cambiamenti di vita (l’adolescenza è un’età tipica di esordio di queste problematiche) e al tempo stesso, avendo imparato ad adeguarsi a un’immagine esterna che mostrano agli altri, risulteranno confuse riguardo sulle loro caratteristiche identitarie più autentiche. Potranno avvertire per questo un angosciante senso di “vuoto” non appena provino a sospendere la facciata che sono abituate a mostrare o a modificare le proprie compulsioni/controlli alimentari.
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È per questo motivo che approcci esclusivamente sintomatologici o di educazione alimentare – per quanto spesso imprescindibili – possono rivelarsi in molti non efficaci da soli a lungo termine.
Il disturbo alimentare è una sorta di salvagente a cui la persona ha imparato ad aggrapparsi per rimanere “a galla” nelle tempeste della vita e che pur tuttavia le impedisce di procedere liberamente verso le proprie mete (Johnston, 1996). Non si può immaginare che possa lasciarlo se prima non abbia gradualmente appreso non solo che è in grado di nuotare, ma qual è il suo personalissimo e individuale modo di farlo.
“Col cibo si combatte l’angoscia del niente e si ripara il vuoto esistenziale, ristabilendo il contatto con i propri punti di riferimento corporei. In un certo senso, come tutte le malattie, anche la bulimia ha un ruolo funzionale, anzi terapeutico: ci si ammala un po’ per non morire.”
Umberto Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, 2003
Per saperne di più:
Johnston A. (1996). Il corpo delle donne, fiabe, miti e leggende per trasformare il nostro rapporto col cibo. Trad. it., Castelvecchi,2014
Cristina Rubano