Psicologia

I genitori sono le colonne del tempio educativo

Di Cristina Rubano - 14 Aprile 2022

Essere genitori significa assumere un ruolo identitario importante ma, prima ancora, aver avviato un passaggio evolutivo verso uno stadio “generativo” della vita adulta. Questo passaggio può riguardare ogni persona, a prescindere dal fatto che abbia o meno dei figli. Essere genitori, insomma, è soprattutto una questione…. di testa!

La generatività come passaggio evolutivo

Essere genitori significa anzitutto essere disposti a passare “dall’altra parte”, e non riguarda solo coloro che mettono materialmente al mondo un figlio.

Erik Erikson è stato uno psicologo teorico e studioso dello sviluppo umano. Egli ha avuto il merito di farci comprendere che non smettiamo mai di crescere. Che l’adultità non è uno “stato”, non è un traguardo puntuale che si raggiunge una volta per tutte. Al contrario, anche l’adultità – in modo simile a quanto avviene per l’infanzia e l’adolescenza – ha le sue “sfide evolutive”. Le sue fasi implicano di risolvere importanti conflitti evolutivi per il raggiungimento, via via, di una maturità psicologica e affettiva sempre più piena.

La prima età adulta è quella fase del ciclo di vita in cui si dovrebbe essere impegnati a costruire legami di intimità affettiva e ruoli sociali stabili, insomma a trovare un proprio “posto nel mondo”.

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Ma è nella seconda fase dell’adultità (dopo i 30 o 40 anni) che, secondo l’Autore, le persone si trovano a dover affrontare un altro compito evolutivo: accedere ad una dimensione psicologica di “generatività”. Generatività che, sebbene sia ben esemplificata dal diventare genitori, non si limita a una scelta riproduttiva. Ma implica un assetto mentale in cui la persona è in condizione di uscire da un’autocentratura sulla propria dimensione individuale (fuori o dentro la coppia) per dar vita a qualcosa fuori da sé.

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Dall’essere figli all’essere genitori

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Scrive Erikson che

l’uomo maturo ha bisogno che si abbia bisogno di lui e la maturità ha bisogno di essere guidata e incoraggiata da ciò che è stato prodotto e di cui bisogna prendersi cura”.

Può trattarsi di un figlio (biologico o non), ma tale dimensione potrebbe esprimersi anche, o in alternativa, attraverso altre iniziative “creative” e generative di carattere sociale. Pesiamo ad un’impresa, una realtà associativa, una comunità locale (Cappelletti).

Vista da questo punto di vista, anche l’assunzione di un ruolo politico o manageriale potrebbe essere intesa come espressione di una generatività della psiche adulta. Siamo più spesso abituati a intendere questi come ruoli di “potere”, incentrati su una dimensione di successo individuale, quando non ad un egoistico tornaconto personale. Eppure molto dovrebbero avere a che fare con l’assunzione di responsabilità e dedizione verso un benessere collettivo più ampio. Tanti leader inadeguati potrebbero essere pensati come generazioni di figli che non hanno saputo transitare nel ruolo sociale, psichico e identitario di potenziali genitori.

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Essere madri e padri oggi

Dunque, avere una famiglia con dei bambini è un po’ come gestire una piccola impresa. Ma riguardo al ruolo genitoriale in senso stretto molte sono le considerazioni che soprattutto oggi, possono essere fatte.

Da un lato viviamo un tempo in cui i traguardi maturativi e autorealizzativi delle persone molto più variegati di una volta. Questo sposta in avanti, spesso di molto, il raggiungimento di alcune mete adulte. Mete che le generazioni passate realizzavano già in età giovanile. E rende i tempi interni della psiche non sempre in linea con i ruoli incerti che la persona vive all’esterno.

O, al contrario, non sono rari i casi in cui si definisce un orizzonte di vita familiare destinato a rompersi dopo pochi anni rigettando entro un’instabilità che si credeva ormai superata.

Fare figli dunque è spesso una scelta che convive con la necessità di definire o ri-definire ancora il proprio posto nel mondo imponendo ai neo-genitori due compiti evolutivi insieme.

Da un altro punto di vista poi, siamo in un’epoca in cui i genitori o aspiranti tali sono mediaticamente bombardati da una miriade di informazioni. Consigli, raccomandazioni, dalle più corrette alle più fallaci, su quali dovrebbero essere le scelte educative migliori.

C’è in questo una tensione a dover essere dei genitori perfetti, a dover abbracciare una sfida dotata di un carattere di straordinarietà ed eccezionalità apparentemente senza precedenti. Assistiamo a un venir meno, nelle coscienze collettive, del carattere “naturale” e “fisiologico” della genitorialità. Questo rischia di ridurre e trasfigurare l’essere genitore in una sorta di performance alla ricerca di una conferma di sé piuttosto che alla dedizione al bene dell’altro.

Tutto questo rischia di mettere una pressione enorme e far sentire i genitori sotto esame inutilmente.

“I mestieri più difficili in assoluto sono nell’ordine il genitore, l’insegnante e lo psicologo.”

 (Sigmund Freud)

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Per essere bravi genitori meglio non essere perfetti!

Donald Winnicott fu un pediatra e psicoanalista che, fra i suoi molti contributi teorici, ci ha lasciato un concetto forse noto ai più, ma troppo spesso dimenticato nella “vita vera”. E cioè che una madre (ma ognuno dei due genitori in realtà) per essere all’altezza del proprio ruolo non deve essere perfetta, ma “sufficientemente buona”.

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Questo implica che è inevitabile, e anzi auspicabile, che chi svolge un ruolo genitoriale possa sbagliare. Non essere sempre in sintonia con i bisogni del figlio, fare degli inciampi fa parte del gioco. Quel che conta è che un padre o una madre siano responsivi e sintonici il più delle volte. Cioè quel tanto che basta a costruire nel figlio una fiducia di base. Ma è altrettanto utile che accadano piccole rotture che consentano al genitore di conoscere meglio il proprio figlio. E che consentano a quest’ultimo di crescere anche nonostante i difetti o le mancanze del proprio padre o della propria madre.

Imparare a “lasciar andare” …

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Nessun genitore nasce come tale, ma lo diventa crescendo di pari passo con lo sviluppo del proprio figlio. Per essere genitori efficaci, occorre essere anzitutto genitori consapevoli. Non tanto dei dettami e delle teorie dello sviluppo più accreditate, quanto dell’imperfezione e dell’incessante divenire del proprio ruolo. Educare i figli, curarsi di loro, significa rimettere continuamente in discussione alcune delle proprie certezze. Significa modificare il proprio approccio man mano che cambiano i loro bisogni di accudimento e di autonomia. Significa, anzitutto, saper modificare e aggiornare, man mano, la rappresentazione che si ha di quel figlio e rimodulare conseguentemente il proprio ruolo.

È un lavoro privo di molte certezze, che richiede continuamente di “lasciar andare”… Lasciar andare qualcosa di quell’accudimento primario e di quei confini educativi su cui si era fondato inizialmente il proprio essere madri e padri. Lasciare alcune delle proprie certezze e comodità individuali a beneficio di un bene “altro” e più grande che è quello del figlio.

“Prendere la decisione di avere un figlio è importante. È decidere di avere per sempre il tuo cuore in giro fuori dal corpo”. (Elizabeth Stone)

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