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Cecità di Saramago: una riflessione sulla cattiveria umana

Di Cristina Rubano - 18 Agosto 2021

Dei libri di Josè Saramago, Cecità (1995) è fra quelli di maggior successo, un racconto fra l’onirico e il surreale, adatto ad essere calato in ogni tempo e luogo che induce a riflettere sull’indifferenza e l’individualismo dell’essere umano postmoderno. Quella “cecità” che spesso impedisce di tutelare il bene comune, di praticare la solidarietà o di salvaguardare quei principi etici e morali che ci rendono “umani”.

“La cecità stava dilagando, non come una marea repentina che tutto inondasse e spingesse avanti, ma come un’infiltrazione insidiosa di mille e uno rigagnoli inquietanti che, dopo aver inzuppato lentamente la terra, all’improvviso la sommergono completamente.”

(José Saramago)

Trama del romanzo Cecità

La storia ha inizio una mattina come tante, automobili in fila davanti a un semaforo, scatta il verde ma la macchina in testa non parte. Il guidatore è stato improvvisamente colpito da un’inspiegabile forma di cecità bianca: è lui “il primo cieco”, il paziente zero, a cui seguiranno man mano tutti coloro che con lui entreranno in contatto: “il medico” e i suoi pazienti in sala d’aspetto (“il ragazzo con gli occhiali scuri”, “il vecchio con la benda nera sull’occhio”, “il ragazzino strabico”) e a seguire molti altri. L’epidemia di cecità dilaga rapidamente e sembra non risparmiare nessuno tranne “la moglie del medico” che si finge cieca a sua volta per essere internata insieme al marito.

I ciechi infatti vengono rinchiusi in degli edifici protetti dall’esercito nel tentativo di contenere il dilagarsi dell’epidemia. Ma non è solo la vista ciò che i personaggi stanno perdendo: l’internamento e la cecità li fanno regredire rapidamente a una perenne lotta di tutti contro tutti, vengono commesse e accettate ogni sorta di sopraffazioni e violenze, ogni uomo sembra davvero essere diventato “un lupo per l’altro uomo” avverando la fosca visione hobbesiana. Unico personaggio “positivo” la moglie del medico che non abbandona il marito e instaura un legame con le altre donne, con le quali si risolleva dopo il trauma dello stupro collettivo e, una volta fuori dal confinamento, pone le fondamenta di una nuova comunità resiliente da cui l’umanità possa rinascere dopo la devastazione sociale e antropologica della pandemia. La vista improvvisamente, e in maniera altrettanto inspiegata, ritorna per tutti…

“Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.”

(José Saramago)

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La cecità dell’essere umano postmoderno

uomo con lampadine agli occhi

Credit foto
©Pexels

L’autore di Cecità non lascia nulla al caso: nell’opera di Saramago ogni accorgimento narrativo e stilistico ha un preciso significato. Ad una prima analisi dei personaggi appare evidente come nessuno di loro sia connotato da un nome proprio: “la moglie del medico”, “il ragazzino strabico”… tutti sono descritti in maniera anonima, spersonalizzante, seguiamo i vari personaggi muoversi, parlare, commettere magari le azioni più disperate o malvagie eppure le loro personalità rimangono anonime, continuano ad essere, come avrebbe detto Hannah Harendt, dei “signor nessuno”… Le frasi di Cecità non distinguono mai la narrazione dal discorso diretto tramite il virgolettato, ma le parole dei personaggi sono introdotte da delle semplici virgole. Ne esita una narrazione in cui il lettore perde i punti di riferimento e dove anche le parole pronunciate sembrano ricadere sotto un velo di opaca anomia.

Anche l’ambientazione della vicenda rimane in effetti indefinita (una città senza nome) così come impossibile è connotare con precisione il periodo storico o politico in cui tale “dramma moderno” viene ambientato. Cecità parla infatti non di una bizzarra e fantascientifica vicenda accaduta a pochi, ma dell’anomia e dell’indifferenza che può appartenere a tutti noi in qualità di uomini e donne dell’epoca postmoderna, individualista, “liquida” come avrebbe detto Bauman, che fa dell’interesse individuale il bene prioritario rischiando di distruggere quella solidarietà sociale, quei valori di appartenenza collettiva che ci rendono umani.

Il risultato è allora la corsa al successo personale ad ogni costo, alla tutela dell’interesse individuale anche a discapito del bene altrui, alla pretesa dell’esercizio di una liberta personale illimitata e come tale sterile e distruttiva per tutte le parti in gioco. Una situazione che rende, tanto i personaggi di Saramago quanto i cittadini del “villaggio globale” (Marshall McLuhan, 1964), “ciechi” perché incapaci di pensare, incapaci di dare un senso e un “nome” alle cose, incapaci di riconoscere nell’altro quella stessa umanità che appartiene a sé stessi. Se gli altri sono visti e trattati alla stregua di “cose” da possedere, eliminare, sacrificare o soggiogare per i propri scopi, l’oggettivazione spersonalizzante prende il sopravvento.

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“… appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. Dobbiamo quindi, certamente, lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, non perché così prescrive il regolamento, ma per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli, non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a morire”.

(Primo Levi)

Metafora della cecità tra banalità del male e cattiveria insensata

In psicologia si definisce mentalizzazione: quella capacità che hanno, o dovrebbero avere, gli esseri umani di pensare alle proprie e altrui azioni in termini di stati mentali; di spiegarsi il comportamento dell’altro sulla base di una teoria della mente: l’altro fa delle cose perché, come me, è animato da sue emozioni, pensieri, motivazioni che io possono provare empaticamente a immaginare dando senso a quanto accade. È dunque la capacità di comprendere sia i propri stati mentali che quelli altrui, di empatizzare, di capire e tollerare punti di vista diversi. Gli altri sono uomini e donne, esseri umani come me e posso rapportarmi a loro sulla base di questa “umanità” che ci accomuna.

Questa facoltà non è acquisita una volta per tutte: può recedere in condizioni psicopatologiche e in situazioni soggettivamente traumatiche e, come avviene in Cecità, in contesti collettivi dove viene meno il senso di appartenenza ad una comunità. Lo abbiamo visto nelle drammatiche vicende dei nazionalismi del ‘900, analizzate da Hannah Arendt, ma possiamo vederlo ogni giorno nelle nostre semplici, ordinarie e banali vite postmoderne. La cultura individualista occidentale, i social, la disinformazione, la paura derivata dalla crisi sanitaria e sociale… Tutti noi possiamo, che ci piaccia o no, diventare improvvisamente “ciechi”, abdicare temporaneamente alla nostra capacità di pensare perché il mondo iperconnesso, semplificato e amplificato che ci circonda ci istiga a farlo senza neanche rendercene conto.

Ogni volta che ci fermiamo al titolo “sensazionale” di un post prendendolo per verità, ogni volta che commentiamo con cattiveria le foto o le vite degli altri proteggendoci dall’anonimato del web, ogni volta che ci facciamo trascinare dalla “massa” e ci scagliamo contro un “nemico” esterno – magari costruito mediaticamente ad hoc – per sentirci più sicuri, ogni volta che condividiamo una fake news senza farci domande né dedicare qualche minuto a verificarla… Ogni volta stiamo temporaneamente abdicando – in maniera apparentemente banale – alla nostra capacità di pensare, all’esercizio del nostro spirito critico, della nostra empatia. Gli algoritmi del web sono progettati appositamente per farci incontrare soprattutto notizie, e pseudo tali, che confermano quanto già crediamo o quanto ci piace credere come vero. La post modernità non necessariamente ci sprona a farci domande, la tecnologia di per sé non solletica la nostra curiosità o voglia di sapere. È l’utilizzo che ne facciamo che può fare la differenza. Rivendicare il diritto di aspettare, verificare, farci domande, non pretendere di avere tutto e subito, potrebbe sembrare uno spreco di tempo nell’era dei bye e dei “click” eppure è in questi spazi che coltiviamo il pensiero e conserviamo la nostra capacità di “vedere”

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“Il male più terribile al mondo è il male commesso dai signor Nessuno. È un male che viene commesso da uomini senza moventi, senza convinzioni, senza alcuna crudeltà o senza menti diaboliche, perciò da essere umani che si rifiutano principalmente di essere delle persone. È esattamente questa la banalità del male. (…) Rifiutando totalmente di essere una persona, si rinuncia a quella che consideriamo l’unica e più peculiare attività umana: essere capaci di pensare.

Di conseguenza, non si è più in grado di poter dare alcun giudizio morale. Questa incapacità di pensare ha dato la possibilità a molti cosiddetti esseri umani ordinari di commettere azioni riprovevoli su vasta scala mondale, molte azioni che nessuno aveva visto prima.

La manifestazione del lieve evento del pensiero non è assolutamente la conoscenza, ma l’attitudine a discernere il bene dal male, la bellezza del mondo dalle sue brutture, e quindi voglio sperare che pensare possa donare alle persone la forza di saper prevenire terribili catastrofi in questi rari momenti in cui sopraggiunge la resa dei conti.”

(Hanna Arendt, “La Banalità del Male”, film di Margarethe von Trotta)

Cristina Rubano





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