Psicologia

Quando Giudicare Gli Altri Ci Illude Di Essere Migliori

Di Sandra Saporito - 26 Maggio 2019

Esiste una dote rara in grado di di costruire un ponte lì dove tante parole creano muri, di dare sollievo ai cuori feriti dalla maldicenza, e che alcune persone hanno; questa dote è un dono troppo spesso sottovalutato ma che fa sentire la sua mancanza oggigiorno: è la comprensione.

Capire l’altro, includerlo invece di escluderlo, farlo sentire “parte di…”, compreso nella sua identità e nelle sue azioni, senza la necessità di giudicarlo o giustificarlo, è un atto di profonda umanità.

Quando giudicare gli altri ci illude di essere migliori

Il nostro quotidiano ci impone un ritmo di vita frenetico che si ripercuote sulle nostre relazioni; quando ci capita di relazionarci con le persone, dimentichiamo spesso che loro non si limitano a ciò che vediamo o quello che sappiamo di loro, ma che alle loro spalle c’è una vita pregna di difficoltà, di emozioni taciute, di sogni infranti, di silenzi, di dolore. Non siamo gli unici ad aver faticato nella vita, ad aver sofferto.

Ognuno di noi si porta dietro un vissuto di cui non fa parola, ma ciò non toglie che ne senta il peso sulle spalle, ciò non toglie che possa condizionare il modo in cui una persona si relaziona o agisce poi nel mondo. Ognuno di noi ha un certo fardello da portare sulla schiena ed è bene tenerlo a mente quando si sente la voglia di giudicare gli altri gratuitamente.

“Non giudicare il tuo vicino finché non avrai camminato per tre lune nelle sue scarpe.”
(Proverbio dei Nativi Americani)

Sembra quasi che giudicare l’altro, puntare il dito sulle sue colpe, metta in luce le nostre qualità: più giudichiamo le mancanze degli altri e più abbiamo l’illusione di esaltare le nostre virtù; e se parliamo di sofferenza, quasi si ha l’impressione che a riconoscere la sofferenza dell’altro, si annulli automaticamente il nostro dolore. Ed è qui che si nasconde un pericoloso tranello: invece di crescere umanamente, di comportarci in modo maturo, ci comportiamo in modo infantile, egoista.

Ti faccio un esempio: riconoscere il dolore dell’altro non delegittima il mio, anzi! Mi dà la possibilità di capire, di comprendere ciò che sta passando, mi apro a lui, lo includo nella mia realtà (e magari mi apro ad una visone più ampia che può pure essermi utile), per poi rendermi conto che lasciando andare questa rivalità illusoria, una tensione interiore svanisce: non ho bisogno di dimostrare nulla per meritarmi il diritto di esistere.

Includere l’altro non implica escludermi: c’è posto per tutti

Forse questa tendenza a giudicare gli altri è un riflesso delle nostre ferite interiori? Forse, in cuor nostro, pensiamo che se l’altro non è poi così meritevole allora avremmo noi l’attenzione, l’amore, il riconoscimento che desideriamo e che in qualche momento della nostra vita ci è stato negato?

A comportarci male nei confronti dell’altro, a criticarlo e giudicarlo, a maggior ragione se, per dare maggior peso alle nostre critiche, facciamo appello al “branco”, si dimostra solo quanto poco usiamo quelle qualità e virtù di cui pensiamo essere i “degni” rappresentanti.

Per esempio, è un po’ come se fossimo in due ad annegare in mezzo al mare e l’unica strategia che mi viene in mente per salvarmi è quella di arrampicarmi sull’altro per tenere la testa fuori dall’acqua, a costo di farlo annegare. Questa metafora illustra la dinamica che si nasconde dietro a molte relazioni: “Mors tua, vita mea”, una competizione che nutre gli istinti più bassi e di certo non fa bene alla nostra umanità.

Ognuno di noi ha un percorso di fronte a sé e l’illusione sta nel credere che ci sia un unico sentiero per tutti noi e che il primo arrivato, vince (e cosa poi?). Ma la verità è che la vita non è una gara e nessuno può davvero competere con l’altro perché non esiste un unico percorso, c’è un sentiero per ognuno di noi. Quindi perché dovrei credere che a fare inciampare gli altri arriverò all’obiettivo prima se in realtà sono l’unica concorrente sulla mia strada? Anzi, non è che perdendo tempo ad ostacolare gli altri, rallento pure io (e di conseguenza mi faccio violenza)?

Oltre la competizione, c’è un’altra via possibile: la collaborazione

donne insieme

Il giudizio e la critica malevola escludono, creano muri, distanze tra noi e gli altri; sono muri illusori che ci fanno sentire al sicuro, che nutrono un ego ferito e che ci impediscono di andare avanti. Perdiamo tempo ed energia a mettere agli altri i bastoni tra le ruote e nel frattempo non andiamo avanti per la nostra strada. Ma dietro tutto questo, c’è solo una grossa ferita, e l’illusione sta nel credere che se gli altri falliscono e stanno male, avrò più possibilità di essere felice. Non funziona così, basta guardarsi attorno per vedere il circolo vizioso che questa convinzione sbagliata può creare.

Se giudico l’altro, non lo rispetto, non gli riconosco il suo valore come essere umano e nel mentre mi pongo come essere superiore a lui quando, per il semplice fatto di pensare di essere migliore, provo con i fatti che non lo sono. Questo vale sia quando io condanno le sue emozioni, che quando giudico il suo dolore, bollandolo di essere debole o fragile, perché io ho passato di peggio. Ma in realtà, chi può dirlo?

“Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile. Sempre.”
(Platone)

E se invece di lottare contro gli altri, di essere imprigionati in una visione del mondo pregna di competizione e rivalità, decidessimo di collaborare, di relazionarci con un poco più di comprensione, di empatia? E se decidessimo di essere semplicemente più umani gli uni verso gli altri, avremmo ancora il coraggio, il tempo, la voglia di giudicarci, o avremmo capito che prima di farlo, abbiamo ben altro da fare?

collaborare

Sandra “Eshewa” Saporito
Autrice e operatrice in discipline Bio-Naturali
www.risorsedellanima.it





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