Psicologia

Come cambia la solitudine degli uomini e la solitudine delle donne

Di Cristina Rubano - 15 Aprile 2021

Prima sono i compagni di classe, di danza o del corso di inglese; poi quelli dell’università o gli amici conosciuti a un concerto o in vacanza e poi tutte le nuove persone che si incontrano sul lavoro nell’evolversi della propria vita professionale… Nel mentre per molti nasce una nuova famiglia, figli e nuove responsabilità che modificano abitudini di vita, tempo libero e occasioni di fare nuove conoscenze. Man mano che si procede nell’età adulta si tende a selezionare una cerchia di persone – partner, amici, colleghi li lavoro, parenti – con cui approfondire e stabilizzare i rapporti. E non potrebbe essere diversamente poiché se intrattenessimo nella realtà la quantità e mutevolezza dei rapporti che abbiamo con gli “amici” dei social network ci ritroveremmo ad essere con tutti e con nessuno…

La vita ci porta a selezionare alcune persone a discapito di altre. Può darsi però che andando avanti nella maturità i cambiamenti esistenziali e sociali che attraversiamo pongano di fronte a nuove sfide relazionali, a sperimentare momentanei o persistenti sentimenti di solitudine. I motivi? Alcuni riguardano caratteristiche individuali, altri specifiche fasi di passaggio esistenziali e altri ancora, sembrerebbe, il genere di appartenenza.

Sì, perché a quanto pare uomini e donne potrebbero sentirsi soli in modi diversi.

Diversi tipi di solitudine

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Uno studio pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology ha esplorato come cambia la percezione della solitudine, fra uomini e donne con l’avanzare dell’età.

Se infatti alcuni parametri sembrano incidere trasversalmente per tutti, come il pensionamento, una separazione o caratteristiche di personalità più introverse o emotivamente instabili, ce ne potrebbero essere altri legati al genere. Gli uomini sembrano sperimentare un vissuto di solitudine interiore in maniera discontinua contraddistinto da due “picchi”: uno alla fine della giovinezza, subito dopo i 40 anni, un altro con l’avanzare della senescenza dopo gli 80. Nel mezzo di queste due fasi “di passaggio” gli uomini manterrebbero un equilibrio sufficientemente stabile. Tutto il contrario di quel che sembrerebbe accadere alle donne che sperimenterebbero vissuti di solitudine progressivamente crescenti dai 40 fino agli 80 anni.

È probabile che in questa differenza possano incidere fattori di natura sociale e culturale che portano le donne spesso a fondare una parte più sostanziale della propria realizzazione personale entro la cura e la dedizione agli affetti familiari che, inevitabilmente, subiscono drastici cambiamenti con la crescita dei figli e la loro uscita da casa. Gli Autori non forniscono ipotesi specifiche su questa differenza fra i generi, ma questo fattore merita senz’altro ulteriori studi.

Ma davvero l’avanzare dell’età porta invariabilmente a una paura di restare soli? Può esserci anche una solitudine positiva?

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I benefici della solitudine

Per scoprire i benefici della solitudine dobbiamo anzitutto distinguerla dall’isolamento. Quest’ultimo corrisponde a un senso di disconnessione dagli altri e di vuoto interiore che nulla hanno a che fare con la capacità di star bene da soli che è invece una competenza fondamentale da coltivare e rinnovare nel corso della vita.

Ogni persona potrà avere più o meno difficoltà anche a seconda della propria natura: alcuni sono più solitari, altri più orientati all’esterno e al legame gli altri.

Sidney Blatt è stato uno psicoanalista e psicologo clinico statunitense che ha dato un grande contributo alla comprensione della personalità umana, normale e patologica, individuando due possibili “opzioni di fondo” che lo sviluppo di ognuno può seguire. Alcune persone sono più vicine a un versante “anaclitico” (dal greco anáklitos, poggiarsi steso, supino), tendono cioè a definire la propria identità e il proprio valore personale in funzione della gratificazione e conferma che ottengono dallo stabilire buone relazioni con gli altri. Possono essere individui molto solari, accoglienti e sensibili ai bisogni altrui, naturalmente facilitati nella socialità. Ma al tempo stesso più vulnerabili a sentirsi soli e tristi quando questo contatto interpersonale manca.

Altre persone si posizionano invece più su un versante “introiettivo”, sono cioè coloro che, per dirla letteralmente, “portano dentro” di sé il proprio punto di equilibrio, che si definiscono un base a propri standard e valori morali in una relativa autonomia dalle conferme esterne. Possono essere portate per natura a sentirsi meno dolorosamente dipendenti dagli altri ma, al tempo stesso, a sperimentare livelli di sofferenza elevati perché possono faticare a chiedere aiuto.

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In cosa consiste una solitudine “sana”

Ognuno si trova nel corso della vita a dover “addomesticare” la propria personale area di solitudine affinché risulti costruttiva e non costrittiva o impermeabile alle influenze esterne. La voglia di stare soli in psicologia è considerata in tal senso un desiderio potenzialmente sano e benefico a tutte le età.

Ma di cosa è fatta questa solitudine “sana”? Quali possono essere i suoi ingredienti? Eccone alcuni:

  • un’area della mente in cui ritrovarsi a elaborare pensieri e emozioni;
  • la capacità di trovare e utilizzare dei sani metodi di auto-conforto dallo stress e dalle emozioni negative;
  • la possibilità di coltivare hobby, passioni, passatempi in linea con le proprie inclinazioni;
  • la capacità di auto-osservazione e consapevolezza delle proprie risorse oltre che dei propri limiti;
  • e molto altro ancora…

“Quando si evita a ogni costo di ritrovarsi soli, si rinuncia all’opportunità di provare la solitudine: quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e, in ultima analisi, dare senso e sostanza alla comunicazione”

(Zygmunt Bauman)

Cristina Rubano





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