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Cambiamenti Climatici: 700 Specie a Rischio Estinzione

Di Marco Grilli - 30 Marzo 2017

«L’effetto-clima sulle specie animali e vegetali è un amplificatore della “Sesta estinzione di massa” che l’uomo sta provocando nei confronti della ricchezza della vita sul pianeta. Ma, al contrario delle prime cinque estinzioni già avvenute, non è frutto di fenomeni geologici naturali ma avanza rapidissima ed è causata da una sola specie: l’uomo».
Un duro monito da parte del Wwf, che ha diffuso il report “Cambiamenti climatici e sesta estinzione di massa” nei giorni precedenti l’Earth Hour (l’Ora della Terra) del 25 marzo, il più importante evento mondiale per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e delle massime autorità politiche mondiali sul riscaldamento globale, la minaccia più incombente per il futuro della vita sul nostro pianeta.
Cambiamenti Climatici
Sono centinaia le specie a rischio in tutto il mondo, che stanno soffrendo come non mai l’aumento della temperatura e gli altri terribili effetti dei cambiamenti climatici. Tra quelle in pericolo grave il Wwf segnala l’orso polare e i trichechi nell’Artico, la balena franca nordatlantica proprio nell’Atlantico settentrionale, i salmoni in Canada e Nord Europa, il falaropo becco sottile in Nord America ed Europa settentrionale, la sassifraga a foglie opposta nelle Alpi svizzere, il leopardo delle nevi in Asia centrale, il panda gigante in Cina, l’orango di Sumatra e l’orango del Borneo, il tucano solforato in Costarica, lo stambecco, la pernice bianca, il fringuello alpino, l’ermellino, l’ululone dal ventre giallo e l’abete bianco in Italia, il krill antartico, il pinguino di Adelia e il pinguino imperatore nell’Antartico, le tartarughe marine e il plancton marino ovunque.
Come emerge dal report, il cambiamento climatico agisce mediante le variazioni delle temperature terrestri e marine, modificando il regime delle precipitazioni, il livello dei mari, l’estensione e la durata dei ghiacci terrestri e marini, l’albedo e la frequenza e l’intensità degli eventi meteorici estremi. Se da una parte il global warming amplifica e aggrava gli effetti di alcune azioni nocive umane, quali l’inquinamento, la deforestazione e il consumo di suolo, dall’altra costituisce il principale fattore di distruzione degli ecosistemi. Lo dimostra il caso delle barriere coralline, messe a rischio dalla scomparsa delle zooxantelle, alghe unicellulari protagoniste della fotosintesi che danno il colore ai polipi dei coralli ma non tollerano l’eccessiva crescita delle temperature marine, provocando la morte di quegli stessi polipi che formano le barriere coralline (fenomeno denominato bleaching). Un recente studio pubblicato su Nature rileva che il temporaneo aumento della temperatura delle acque, nel 2016 di 4° in più rispetto al normale, ha accentuato il fenomeno dello sbiancamento delle alghe e provocato la morte di oltre il 20% dei coralli della grande barriera corallina australiana, una delle principali attrazioni turistiche del Paese, patrimonio mondiale dell’Unesco. Molti studi scientifici confermano inoltre che il surriscaldamento globale provoca cambiamenti nel ciclo vitale di piante ed animali, alterando anche quelle importanti connessioni spazio-temporali tra le specie (ad esempio fra le prede e i predatori o tra gli insetti impollinatori e la fioritura di alcune piante), frutto di milioni di anni di evoluzione.

La specie animale che pare più risentire dei nefasti effetti del cambiamento climatico è l’orso polare, costretto a fare i conti con la progressiva riduzione della banchisa, tanto che due terzi dei suoi esemplari potrebbero scomparire entro il 2050. Molti di voi avranno negli occhi le tristi immagini degli orsi polari morti annegati durante l’estate artica, poiché costretti a lunghissime nuotate per raggiungere piattaforme di ghiaccio sempre più distanti e sottili.
I ghiacci si ritirano ma i profitti delle grandi compagnie petrolifere e delle flotte pescherecce salgono, grazie a un mare ormai sgombro che si presta alle concessioni estrattive e alla pesca industriale. L’estensione massima del ghiaccio marino dell’Artico si è ridotta al ritmo del 3% ogni 10 anni. Gli ultimi dati diffusi proprio in questi giorni non sono rassicuranti, se è vero che è stata confermata la più rilevante contrazione dei ghiacci artici, con la registrazione del più basso livello minimo primaverile in 38 anni di rilevazioni satellitari. È dunque facile capire le difficoltà degli orsi polari, che abbisognano di un’ampia superficie ghiacciata sia per la caccia che per accudire i cuccioli e scavare le tane.
I ghiacci sorreggono l’intero ecosistema marino dell’Artico, il loro assottigliamento ha gravi ripercussioni non solo sulle specie animali ma anche sulle popolazioni locali, costrette a emigrare a causa dell’erosione del suolo, dell’innalzamento del livello del mare e delle tempeste sempre più frequenti. Visto il suo ruolo nella regolazione del clima globale, l’Artico è stato ribattezzato “il frigorifero del mondo”. Se si fonde il ghiaccio che riflette la luce, si amplia l’oscura superficie dell’Oceano che la assorbe, contribuendo così ad aumentare il riscaldamento globale che provoca la fusione dei ghiacci, in un circolo vizioso dagli effetti nefasti.
Lo scioglimento del permafrost causa inoltre il rilascio di un gas serra molto potente, il metano, che a sua volta può amplificare gli effetti del riscaldamento globale, con gravi danni agli ecosistemi, all’agricoltura e alle infrastrutture.

Dall’Artico all’Antartide, dove il 75% della popolazione dei pinguini di Adelia potrebbe scomparire se le temperature del globo cresceranno di due gradi, mentre nel Mare Nostrum si assiste a un vero e proprio processo di tropicalizzazione del bacino, visto che l’aumento delle temperature provoca l’invasione di specie aliene. «In Mediterraneo orientale, nelle acque libanesi e siriane, le specie non indigene hanno già superato il 50% in peso nella cattura della pesca e in Mediterraneo si contano ormai oltre mille specie aliene, di cui un centinaio sono ritenute pericolose per la biodiversità del bacino, l’economia o la salute», si legge nel report.
In generale, i climi sempre più caldi favoriscono la diffusione di alcune specie di zanzare portatrici di malattie come la malaria, la febbre gialla e la dengue, così come delle meduse in Mediterraneo e dei parassiti degli alberi, che in molti casi risultano specie aliene per i luoghi dove si diffondono molto velocemente (ad esempio un coleottero quale il punteruolo rosso responsabile della moria di palme anche in Italia, o la vespa cinese Drycosmus kuriphilus, che provoca varie malattie nei castagni).
Sono a rischio anche le Alpi, che negli ultimi 40 anni hanno perso il 40% della superficie dei ghiacciai, oggi ridotti a soli 368 kmq. L’aumento delle temperature con conseguente riduzione dell’innevamento stanno causando grandi problemi a specie adattate agli ambienti estremi, quali lo stambecco, l’ermellino, il fringuello alpino e la pernice bianca.
«La stagione vegetativa nelle aree montane dove vivono gli stambecchi è sempre più anticipata, cosicché i prati si sono impoveriti di proprietà nutritive e non offrono ai capretti il foraggio adatto alla loro nutrizione nel momento critico dello svezzamento. La loro sopravvivenza è scesa dal 50% negli anni ’80 al 25% di oggi», spiega il Wwf.
Per completare il quadro italiano, dal punto di vista della flora la specie più a rischio è quella dell’abete bianco, il tradizionale albero di Natale delle regioni settentrionali oggi in pericolo a causa dell’eccessiva umidità atmosferica che favorisce la diffusione dei suoi parassiti, mentre la diminuzione delle piogge ha notevolmente ridotto la popolazione dell’ululone dal ventre giallo, un piccolo anfibio che vive in stagni poco profondi dell’Appennino, noto per i suoi richiami melodici.

Proprio gli anfibi risultano la classe animale più colpita dal global warming, soprattutto per i loro complessi cicli vitali che si svolgono tra terra e acque dolci, dove incidono la siccità e il regime delle precipitazioni. Il 33% di queste specie è inserito nella lista rossa dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn), secondo la cui puntuale analisi il 47% delle specie di mammiferi monitorate e il 24,4% di quelle di uccelli subiscono l’impatto negativo dovuto ai cambiamenti climatici. Numeri notevoli, perché in totale si tratta di circa 700 specie.
Gli ambienti che risentono di più gli effetti del riscaldamento globale sono quelli freddi, dai poli alle vette alpine per arrivare a quelle himalayane, dove a grande rischio è il leopardo delle nevi. Un’altra specie in pericolo, seppur in lieve ripresa numerica, è lo stesso simbolo del Wwf, il panda, la cui sopravvivenza è strettamente legata alle sempre più fragili foreste di bambù. Poco rassicuranti si rivelano anche le stime di autorevoli ecologi pubblicate su Nature, concordanti nel ritenere che rischiamo di perdere fino al 70% delle specie di passeriformi migratori in Australia e ai tropici, a causa del global warming.

«Ormai la scienza ci dice che i cambiamenti climatici ci stanno conducendo in un territorio ignoto, mai visto da quando esiste l’esperienza della civiltà umana. Questo territorio ignoto è drammaticamente collegato con quella che il Wwf ricorda essere la sesta estinzione di massa della ricchezza della vita sulla terra», commenta Donatella Bianchi, presidente di Wwf Italia.
Intanto anche quest’anno il popolo di Earth Hour si è fatto sentire in tutto il mondo, per far sì che agli accordi e agli impegni sottoscritti a Parigi per limitare il riscaldamento globale e virare verso una rapida decarbonizzazione delle nostre economie, seguano finalmente i fatti concreti e misurabili.
Marco Grilli
 
 
 
 





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