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Lettera all'innamorato che c'è in ognuno di noi

Di Elena Bernabè - 11 Febbraio 2016

Oggi sento il bisogno di fermarmi e rivolgermi a te, innamorato.

So che ci sei, addormentato a volte, assopito, stanco, raramente evidente… ma so che abiti in ognuno di noi e ti chiedo, gentilmente, di destarti e di andare nel mondo. Ne abbiamo un bisogno estremo, la tua presenza è richiesta in modo urgente.

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No, non mi rivolgo a te innamorato solo di tua moglie, di tuo marito, dei tuoi figli. No, tu sei solo una piccolissima e a volte nemmeno tanto vera parte dell’innamorato.

Sì mi rivolgo a te, innamorato della vita, delle emozioni, della ricerca della verità. A te che impieghi ogni attimo della tua vita per vincere la paura, per gioire autenticamente di ogni piccolo tassello di vita, che ti emozioni per un sì tanto quanto che per un no, che ricerchi la comprensione ad ogni costo, che lotti per togliere ogni abito superficiale e inutile per vestirti a festa di intelligenza e pura eleganza d’animo. A te che non sai cos’è il lamento perchè ancor prima di arrivarci vai nella direzione giusta per raddrizzare ciò che non va, a te che ami il sole, la pioggia, la luce e il buio.

M’inchino a te se ti ho raggiunto e ti chiedo di ascoltarmi.

C’è confusione qua fuori sulla tua identità, c’è chi ti scambia e t’ingabbia nel solo amore di coppia. Esci, per favore, allo scoperto e fatti vedere. Non accontentarti di questa prigionia, ribellati a questo modo ristretto di vederti. Ti hanno dato questo ruolo, ti hanno addobbato di mazzi di rose e di fiocchetti rossi, ti hanno messo il paraocchi… è ora di uscire da questa idea insana e superficiale dell’amore.

Chi è innamorato lo è di tutto, non può esserlo a metà solo di quella o quell’altra persona, solo di quello o di quell’altro animale, solo di quello o quell’altro luogo. Chi è innamorato ama la vita, la rispetta, la cura, la difende… è custode sincero e valoroso di ogni più piccola manifestazione vitale.

So che stai per esplodere, so che non ce la fai più. E’ arrivato il momento di emergere.

innamorato

L’innamorato esplora, tace, osserva, non giudica… l’innamorato vive.

Spezza le catene che non ti permettono di agire, renditi libero di difendere te stesso e il mondo in cui vivi, butta all’aria fronzoli inutili, spiega che l’amore non è possesso, spargiti nel mondo, nei progetti, nelle persone, nella natura, ridi a crepapelle e versa fiumi di lacrime, mostraci cos’è davvero l’amore.

Dedico all’innamorato che c’è in ognuno di noi un vero e proprio inno all’amore cantato da Tiziano Terzani nel suo libro “Un altro giro di giostra“, un inno all’India che rappresenta però un inno alla vita vera.

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“Chi ama l’India lo sa: non si sa esattamente perché la si ama. È sporca, è povera, è infetta; a volte è ladra e bugiarda, spesso maleodorante, corrotta, impietosa e indifferente. Eppure, una volta incontrata non se ne può fare a meno. Si soffre a starne lontani. Ma così è l’amore: istintivo, inspiegabile, disinteressato. Innamorati, non si sente ragione; non si ha paura di nulla; si è disposti a tutto. Innamorati, ci si sente inebriati di libertà; si ha l’impressione di poter abbracciare il mondo intero e ci pare che l’intero mondo ci abbracci. L’India, a meno di odiarla al primo impatto, induce presto questa esaltazione: fa sentire ognuno parte del creato. In India non ci si sente mai soli, mai completamente separati dal resto. E qui sta il suo fascino.
Alcuni millenni fa i suoi saggi, i rishi, « coloro che vedono », ebbero l’intuizione che la vita è una, e questa esperienza, rinnovata religiosamente di generazione in generazione, è il nocciolo del grande contributo dell’India all’incivilimento dell’uomo e allo sviluppo della sua coscienza. Ogni vita, la mia e quella di un albero, è parte di un tutto dalle mille forme che è la vita.
In India questo pensiero non ha più bisogno d’essere pensato. È ormai nel comune sentire della gente. È nell’aria che si respira. Il solo esserci induce una inconscia assonanza con quella ormai antica visione. Senza difficoltà si entra in sintonia con nuovi suoni, nuove dimensioni. In India si è diversi che altrove. Si provano altre emozioni. In India si pensano altri pensieri.
Forse perché in India il tempo non è sentito come una linea retta, ma circolare, passato, presente e futuro non hanno qui il valore che hanno da noi; qui il progresso non è il fine delle azioni umane, visto che tutto si ripete e che l’avanzare è considerato una pura illusione.
Forse perché qui la realtà percepita dai sensi non è generalmente presa per vera – non è la « Realtà Ultima » -, l’India infonde, anche in chi non crede in tutto questo, uno stato d’animo di distacco che rende il paese così particolare e la sua realtà, a volte proprio orribile, in fondo accettabile. Accettabile perché così è la vita: è tutto e il contrario di tutto, è stupenda e crudele. Perché la vita è anche la morte, e perché non c’è piacere senza dolore, non c’è felicità senza sofferenza.
In nessun altro posto al mondo la contrapposizione degli opposti – bellezza e mostruosità, ricchezza e povertà – è così drammatica, così sfacciata come in India. Ma è stata proprio questa visione dell’inevitabile dualità dell’esistenza che spinse i rishi a cercarne il significato recondito, che ancora oggi sembra agire come un catalizzatore spirituale in chi ci si avventura.
Basta metterci piede, in India, per provare questo mutamento. Innanzitutto ci si sente più in pace. Con se stessi e col mondo. Io in India non avevo più bisogno di «rimedi » per sentirmi in pari, per avere il mio, altrimenti instabile, caleidoscopio fisso su un colore piacevole. Il « rimedio » era tutto attorno. In niente di specifico, ma in ogni dettaglio.
«L’India è una esperienza che ti accorcia la vita», mi disse Dieter Ludwig il giorno in cui, anni fa, arrivai a Delhi per piantarci definitivamente le mie tende. Poi aggiunse: «Ma è anche un’esperienza che dà senso alla vita »

[…]Al Lodhi Gardens, uno dei più bei parchi di Delhi […], tutto era come lo avevo lasciato: gli avvoltoi appollaiati sulla piccola moschea abbandonata; i praticanti di yoga con i loro tappetini distesi sull’erba; quelli che in circolo, con le braccia per aria, si spanciavano dalle risate; centinaia di corvi, piccioni, pappagalli e scoiattoli si contenevano sempre le croste di pane, messe apposta per loro dai passanti sulle rovine delle tombe. E c’era sempre il vecchio, magro, con la barba bianca, che si aggirava sui prati a versare, da un sacchettino di stoffa, una mistura di farina e zucchero in certi buchi nella terra. Lui ogni giorno dava da mangiare alle formiche. Succede solo in India! In ogni parte del mondo la gente reagisce alle formiche sterminandole. […]Se le formiche ci sono, perché ammazzarle? Non occorre pensare che siano reincarnazioni di un nonno o di uno zio. Basta rendersi conto che sono parte di un creato come lo siamo noi. Allora perché sterminarle?”

Elena Bernabè



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