Curiosità

Pierre Rabhi: “L’orto è un gesto rivoluzionario”

Di Redazione - 7 Giugno 2023

Pierre Rabhi è stato un filosofo, poeta, scrittore ma soprattutto un agricoltore biologico. Nasce in Algeria nel 1938, si sposa con Michelle e si trasferisce a Ardèche, spinto dall’amico il dottor Pierre Richard, un medico, ambientalista e visionario che si occupava della creazione del Parco Nazionale delle Cévennes. Muore a Lione in Francia il 4 dicembre del 2021.

“La sopravvivenza della specie umana non potrà prescindere dall’integrazione di due nozioni fondamentali: il rispetto della terra, come pianeta al quale dobbiamo la vita e dal quale non possiamo dissociarci (e della sua estensione diretta che è la terranutrice), e l’avvento di un umanesimo planetario, l’unica prospettiva in grado di dare un senso alla storia dell’umanità in quanto fenomeno.”

Pierre Rabhi

Pierre Rabhi ha lavorato all’inizio come un comune bracciante, spargendo concimi chimici sulla terra che coltivava. Iniziò però a dubitare delle sue azioni, ritenute così normali per tutti. Decide, quindi, di voler fare qualcosa per cambiare le cose: grazie ad un prestito economico da parte di un amico acquista un terreno tutto suo da poter coltivare come vuole lui, per poter lasciare ai suoi cinque figli qualcosa di più di una terra inquinata. Comincia con un piccolo allevamento di capre: non vuole “produrre”, lui vuole sperimentare un’agricoltura biodinamica, con la quale produrre quello di cui ha bisogno, utilizzando fertilizzante naturale. Il terreno sotto le sue mani cambia, da sterile diventa ricco di sostanze organiche, questa è la spinta decisiva che fa si che Rabhi pensi alla sua terra natia.

Pierre Rabhi e L’Africa

L’Africa è un paese ricco di risorse e poco popoloso, allora perché è così povero? Rabhi spiega il perché…

“Certamente ciò dipende dal fatto che da molti secoli le sue ricchezze sono sottoposte a saccheggio. Ma non solo. La miseria endemica che imperversa nel mio continente natale, come del resto nella maggioranza delle regioni definite sottosviluppate, deriva in gran parte dall’imposizione a popolazioni che non hanno chiesto nulla a nessuno di modi di produzione che non sono adatti né ai loro territori, né al loro saper fare, né alle loro forme di organizzazione sociale”.

“La nuova distribuzione modernista, introdotta dalla colonizzazione e perseguita dalla politica del libero scambio, può essere illustrata nella maniera seguente. Quelle popolazioni rappresentano un potenziale produttivo, per cui le si connette al sistema mercantile facendole coltivare prodotti esportabili secondo il procedimento abituale dell’agro-industria: si forniscono loro le sementi e gli input con le modalità d’impiego; dopo la raccolta, il contadino porta le sue balle di cotone alla cooperativa, che le spedisce in Olanda o altrove per commercializzarle; alla fine della catena il piccolo produttore riceve la sua parte del prezzo di vendita diminuito del costo delle forniture.

“Non controllando né il primo, né il secondo, egli non può allora che constatare la sua dipendenza dall’economia mondiale e dalle sue fluttuazioni: costo dei concimi indicizzato sul dollaro (ci vogliono tre tonnellate di petrolio per produrre una tonnellata di concime), prezzi delle merci sottomessi alla speculazione, diktat del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. Siccome nel frattempo la coltivazione dei prodotti alimentari è stata sradicata per fare spazio alle monoculture (cotone, caffè, arachidi), finalizzate esclusivamente all’esportazione, il contadino africano si ritrova nell’impossibilità di uscire dal sistema”

Tratto dal libro di Hervé René Martin -La mondialisation racontée à ceux qui la subissent, 2e partie : La fabrique du diable, Climats, 2003

Per questo Rabhi ha fondato diversi movimenti ecologici come Colibris, Mouvement pour la Terre et l’Humanisme, ed è l’esperto dell’Onu per lo sviluppo delle Terre Aride.

E’ sempre stato un uomo semplice, un contadino che ama la vita: diceva di non saper spiegare la magia di questa terra che dona la vita, ma di saperla onorare.

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La differenza sostanziale nella sua vita di contadino rispetto a quella degli altri contadini è che lui coltivava non per vendere ma per se stesso, per la sua famiglia. Non chiedeva alla terra quello che la terra non poteva dargli, era una sorta di patto, di rispetto reciproco. Cosa che in Burkina Faso, dove gli era stato chiesto di intervenire, non avviene: è un sistema che produce povertà, una cane che si morde la coda, troppo cari i fertilizzanti e i macchinari e i contadini non se li possono permettere, e allora non riescono a produrre per vendere, a fare un’agricoltura industriale e così diventano poveri e affamati.

L’orto è un gesto rivoluzionario

verdure in mano

Credit foto
© Pixabay

I piccoli orti sono l’inizio di una piccola rivoluzione contro lo sfruttamento della terra, e come sosteneva Rabhi attraverso una delle sue frasi più famose: “L’orto è un gesto rivoluzionario“.

Quando fondò il suo movimento per la terra, Colibris, scelse il nome grazie ad una leggenda dei nativi Americani:

Un giorno, ci fu un enorme incendio boschivo. Tutti gli animali terrorizzati, atterriti, restavano a guardare impotente il disastro. Solo il piccolo colibrì era occupato, andare a prendere qualche goccia d’acqua con il suo becco a gettarla sul fuoco. Dopo un attimo, il armadillo , infastidito da questa agitazione ridicola, esclamò: “Colibri! Sei pazzo? E non è con queste gocce d’acqua spegnerai il fuoco! ” E il colibrì rispose: “Lo so, ma io faccio la mia parte”.

Pierre Rabhi è stato l’inventore del concetto di “Oasi in tutto il mondo” ed è questo che si dovrebbe insegnare ai bambini: il mondo è tutta una grande oasi, la terra è ricca basta saperla accudire, fare la propria parte e non essere solo meri consumatori insaziabili, stanchi e tristi.

Dedicarsi alla cura di un orto fa bene al pianeta ma fa bene anche a noi stessi: il rapporto con la natura ci calma, ci rilassa, spegne la mente, ci fa tornare alle radici.

“Coltiviamo il nostro piccolo orto non solo per la speranza di poterne ricavare dei frutti un domani, ma soprattutto per il piacere che tale cura e tale speranza ci procurano oggi.”
Giovanni Soriano, Finché c’è vita non c’è speranza, 2010

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